Manifestazioni e La Stampa: perché criminalizziamo la rabbia e ignoriamo la repressione.

di Sara Manisera

Certamente: la società che immaginiamo non dovrebbe essere attraversata da violenza, né da attacchi agli spazi in cui le idee circolano e si confrontano. È ovvio che non ci piace la violenza — a chi piace, d’altronde? Non è ciò a cui tendiamo, né ciò che vogliamo coltivare. 

Eppure, come spesso accade - pensiamo alla vetrina rotta alla stazione di Milano Centrale - un gesto poco strategico, che ha indubbiamente una matrice di violenza, rivolto contro una redazione vuota — per di più in sciopero contro la precarietà che schiaccia gran parte dei giornalisti — finirà per oscurare tutto il resto.

E farà sì che, per le prossime settimane, si parlerà solo di questo: dei muri imbrattati e del disordine, invece che del mondo che brucia.

Ma dentro le varie forme di violenza, non esistono forse enormi asimmetrie? Tra chi ha potere e usa la violenza per governare, reprimere, sfruttare — e chi non ha alcun potere, se non la propria rabbia e disperazione?

Tra chi può decidere cosa raccontare e cosa occultare, e chi può solo urlare nel vuoto?

Non è stato violento il silenzio — e la scorta mediatica — del giornalismo italiano verso il genocidio palestinese e verso l’uccisione di oltre 250 collegh3?

Davvero pensiamo che non vedere, non nominare, non raccontare non sia una forma di violenza, forse la più raffinata, la più strutturale, la più subdola?

E poi: non è forse vero che in Italia si condanna la violenza in modo selettivo?
Che ci si indigna solo per la violenza che tocca i nostri simboli, i nostri edifici, le nostre certezze — quasi mai o con estremo ritardo -  per la violenza che schiaccia chi è lontano, impoverito, razzializzato, meno rappresentabile?

Non è forse violenta la proposta di legge “anti-maranza”, misura razzista e classista che colpisce soprattutto figli e figlie di stranieri, giovani poveri nati e cresciuti in Italia?

Dov’erano gli intellettuali quando bisognava dire qualcosa sulle condizioni materiali, sulla segregazione, sull’esclusione sistemica attuata dalle Istituzioni e dal sistema economico che stanno generando questa rabbia?

Non è violento continuare a parlare dei giovani solo come problema da contenere e mai come prodotto di una società che li spinge ai margini?

E poi, chiediamoci. 

Quante volte si ascoltano e si passa il microfono ai giovani? Quante voci razzializzate accolgono La Stampa e la stampa in generale?
Quante voci davvero diverse, precarie, marginalizzate, non già perfettamente integrate nei contesti sociali e di classe che contano vengono raccontate?

Siamo davvero certi che il giornalismo italiano accolga il dissenso?
O accoglie solo quel dissenso — selezionato, compatibile, docile, pronunciato da chi appartiene già alle fasce “accettabili” della società?

Prima di esprimere un giudizio per la finestra rotta, per i giornali rovesciati, per i cori rabbiosi, per alcune scritte sul muro, bisognerebbe avere il coraggio di guardare alle finestre (alle porte e alle bocche) che tante redazioni tengono ben chiuse.

Se il giornalismo diventa sempre più cassa di risonanza del potere, se smette di vedere la rabbia perché racconta e rappresenta sempre le stesse classi sociali, sempre gli stessi mondi, sempre gli stessi corpi — è davvero sorprendente che molti non si sentano rappresentati, né riconosciuti, ma piuttosto etichettati come “maranza”, “pro-pal”, “violenti”, “ingestibili”?

Io un po’ di autocritica me la farei: a chi parla questo giornalismo? A chi si rivolge? Serve a costruire ponti o rafforzare muri? Serve a capire o a compiacere sé stesso? 

E di nuovo, riflettendo sulla violenza. 

Non è violento un editore — una holding come Exor-Gedi, che investe anche nell’industria della guerra — che limita, orienta o impedisce lo spazio per scrivere criticamente di aziende come anche di ENI, delle sue responsabilità, delle sue violenze nel mondo e non solo?

Chi ha più potere?
Qual è davvero l’asimmetria della violenza?

E a questo punto viene spontanea un’altra riflessione: Che società vogliamo? La pone Francesca Mannocchi, giustamente, scrivendo “è una dichiarazione sul tipo di società che alcune persone desiderano”.

Ma allora io rilancio e chiedo: vogliamo davvero una società in cui la deportazione per reati d’opinione diventa normale?

Va bene uno Stato che dà fogli di via, che denuncia chi protesta, che prende un uomo da casa sua e lo rimpatria in Egitto dopo vent’anni di vita qui? La libertà di espressione vale per tutti o solo per pochi?

Quanto è stata amplificata questa violenza di Stato? Se non fosse stato per i manifestanti “Pro-Pal” come vengono definiti, di Mohammed Shahin avrebbero parlato solo il vescovo di Pinerolo e pochissimi altri.

E ancora, in quanti hanno parlato davvero del caso Ramy - ad un anno dalla sua morte - del lutto che sta ancora elaborando chi gli voleva bene, e della profilazione razziale che vivono tantissime persone in Italia?

Siamo proprio sicuri che il giornalismo dia il giusto spazio a queste storie?
Chi dà loro un luogo dove esprimersi senza correre il rischio di venire infantilizzati o criminalizzati?

La violenza viene esercitata oggi in molti altri modi, e per quanto ciò che è accaduto alla redazione de La Stampa ci possa disturbare — perché è inaspettato, perché fa paura, perché mette a nudo fratture profonde — la domanda che dovremmo porci è perché? Da dove viene? Quali condizioni materiali la generano?

E allora bisognerebbe chiedersi: davvero pensiamo che, davanti a tutta questa violenza — economica, di classe, razziale — le persone, soprattutto i giovani, non reagiscano?
Con quale distacco si pretende che la gente subisca in silenzio mentre tutto intorno crolla?

Non è forse violento deportare un uomo, un uomo di pace, che vive da vent’anni in Italia, e vedere che nessuno — o quasi nessun intellettuale, nessuna voce “autorevole” — spenda una parola?
Non è forse questa la violenza che non vogliamo nominare perché ci costringerebbe a vedere la complicità delle nostre istituzioni, e del razzismo che abbiamo interiorizzato?

Personalmente credo che l’azione contro la redazione de La Stampa sia sbagliata, miope, priva di senso e inutile per il movimento per la Palestina e per tutte le altre lotte che hanno provato a convergere in questi giorni di sciopero e mobilitazione. 

Conoscendo la stampa nostrana, era prevedibile che si sarebbe concentrata tutta sul gesto violento dei manifestanti, andando ad oscurare le altre forme di oppressioni e intimidazioni, molto più violente, che stiamo vivendo e per le quali le piazze si stanno mobilitando.

Quando, da giornalista osservo la rabbia dei giovani verso la mia categoria, sinceramente non mi sento attaccata, perché comprendo che è frutto della loro esasperazione, della rabbia e della loro paura. 

Mi sento però attaccata quando la stampa italiana paga me e i miei collegh3, 15, 20, 35 euro a pezzo, a cottimo, con tempi impossibili e nessuna tutela. 

Mi sento attaccata quando i politici, i poteri economici e le multinazionali che inquinano e distruggono il pianeta, usano la querela temeraria per zittire chi fa domande. 

Mi sento attaccata quando il governo e i servizi di intelligence si infiltrano con software di sorveglianza sviluppati da aziende israeliane. 

Mi sento attaccata quando chi dovrebbe difendere la libertà di informazione tace davanti a un genocidio e si sveglia quando un frammento di disagio sociale arriva sotto casa.

Qual è il potere reale di quei giovani rispetto a uno Stato genocidiario o ad uno repressivo?
Qual è la minaccia reale: un gruppo di ragazzi esasperati o un ordine internazionale che normalizza l’annientamento di un popolo?

A quei giovani vorrei parlare, fare domande. Perché? Da dove arriva la vostra rabbia? Chi vi ha ascoltato, chi vi ha ignorato? Cosa chiedete, cosa vi è stato negato? Cosa vi brucia dentro?

Non per giustificare. Ma per capire.
Perché senza capire continuiamo a produrre solo punizioni, fogli di via, leggi speciali, repressione…. e rabbia. E continueremo a chiamare “violenza”  tutto ciò che non minaccia i rapporti di potere, lasciando impunita e senza nome la violenza quotidiana: quella che sfrutta, che deporta, che uccide, che inquina, che censura, che sorveglia, che fa tacere.

Quella che, semplicemente, non vuole che guardiamo in faccia la violenza insita in chi ha davvero potere e può facilmente decidere le sorti della nostra società. 


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