Giustizia riparativa

La gestione dei conflitti oltre la pena.

di Martina Cangialosi

È possibile ripensare la giustizia oltre la logica della pena e della punizione? In che modo il sistema penale può essere trasformato per mettere al centro la vittima ed evitare che venga perpetuata altra violenza? 

Esiste un modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo: si chiama giustizia riparativa. Questa definizione è del criminologo Howard Zehr (Changing Lenses, Herald Press 2015), uno dei padri fondatori della giustizia riparativa, e rappresenta un tentativo di inquadrare un fenomeno complesso, in continua evoluzione, che comprende un insieme di metodi e pratiche volti alla gestione e alla risoluzione dei conflitti. 

L’idea alla base è che il reato non sia solamente la violazione di una norma giuridica, ma soprattutto la rottura di una relazione. Al centro vengono posti la vittima e i suoi bisogni, nel tentativo di affrontare il conflitto e gestire le conseguenze emozionali (rabbia, paura, ansia, risentimento, vergogna etc), che il processo penale non considera.

Attraverso il dialogo e l’incontro, si cerca di creare degli spazi protetti e sicuri in cui vittima e reo possono raccontare la propria storia e mettere in atto un processo di condivisione finalizzato, da un lato, al riconoscimento della vittima e della sua dignità e, dall’altro, all’auto-responsabilizzazione di chi ha commesso il reato, che, in questo contesto, trova uno spazio di ascolto libero da logiche punitive. 

Cos’è la giustizia riparativa e perché supera la logica della pena

Al contrario della giustizia tradizionale che richiede l’intervento dello Stato nel determinare una colpa e imporre una pena, relegando la figura della vittima sullo sfondo,

le pratiche di giustizia riparativa chiamano in causa entrambe le parti, riconoscendo responsabilità e bisogni e promuovendo percorsi di riparazione del danno che passano attraverso la cura dell’altro.

La finalità retributiva, ovvero l’idea che il colpevole vada “punito come merita”, e di deterrenza della pena vengono superate per focalizzarsi sulla ricostruzione della relazione che è stata rotta dal reato.  

Caratteristica strutturale e imprescindibile di queste pratiche è la partecipazione volontaria e consensuale di vittima e reo. “La giustizia riparativa è una proposta scandalosa perché significa attivarsi e partecipare nel regno incontrastato della passività, impegnarsi in modo attivo dove di solito si subisce passivamente un male sterile”, spiega Claudia Mazzucato, mediatrice penale e docente di Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano. 

Origini indigene e modelli internazionali della giustizia riparativa

L’idea di una giustizia riparatrice, che guarda al reato come alla rottura di una relazione e che prevede la partecipazione degli attori del conflitto alla sua riparazione, risale a modelli indigeni di risoluzione delle controversie. Alcune di queste pratiche si sono originate nelle popolazioni indigene del Nord America, dell’Africa e della Nuova Zelanda, dove ad essere centrale non era tanto l’individuo, come nel caso della giustizia penale classica, quanto la comunità e l’armonia tra i suoi membri, essenziale per la sopravvivenza della comunità stessa. Il reato spezza l’interconnessione tra esseri umani, animali e ambiente, affliggendo tutti coloro che ne fanno parte e, per questo, richiede una riparazione condivisa.

Durante la colonizzazione, il modello giuridico occidentale ha condannato e represso queste forme tradizionali, che sono però riuscite a sopravvivere fino ad oggi. Quando negli anni Settanta, tra Canada e Stati Uniti, prende forma la giustizia riparativa per come la conosciamo e viene coniato il termine restorative justice, si attinge alla tradizioni delle popolazioni indigene canadesi per la creazione dei primi circoli di pacificazione, ovvero procedure dialogiche che riuniscono i diversi attori di un conflitto. La partecipazione può essere estesa anche ad altre figure, come forze di polizia e rappresentanti della comunità, che si uniscono al cerchio, una disposizione che vuole facilitare il dialogo, eliminando contrapposizioni e gerarchie.

In Nuova Zelanda, invece, dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, nell’ambito della giustizia minorile sono stati sperimentati i family group conferencing, incontri di gruppo che coinvolgono le famiglie di vittime e rei con l’obiettivo di consentire l’espressione dei sentimenti delle parti, ma anche di elaborare un piano per l'autore del reato che, oltre al risarcimento, include elementi di prevenzione e, talvolta, di punizione. Questi strumenti, che si sono originati all’interno delle comunità Maori, sono usati in risposta alla maggior parte dei crimini commessi da minori in Nuova Zelanda, sostituendosi all’intervento del tribunale. 

In Italia, la forma più diffusa di giustizia riparativa è la mediazione, ovvero il dialogo tra vittima e autore di reato basato sulla condivisione delle emozioni e sulla comprensione del vissuto e della dignità dell’altro.

L’incontro offre alla vittima l’opportunità di essere ascoltata e al reo la possibilità di acquisire consapevolezza delle proprie azioni e dei loro effetti. Si chiama mediazione perché comprende la presenza di un soggetto terzo, il mediatore, che guida e orienta lo scambio. Può avvenire anche tra autori e vittime di reati analoghi quando una mediazione diretta non è fattibile o auspicabile.

La giustizia riparativa in Italia tra mediazione, legge Cartabia e pratiche diffuse

L’applicazione della giustizia riparativa in Italia è stata regolamentata con la riforma Cartabia, entrata in vigore ad ottobre del 2022. La legge consente il ricorso alla giustizia riparativa in qualsiasi fase del procedimento penale tramite i programmi di mediazione o i dialoghi riparativi, ovvero forme di mediazione allargata ai contesti familiari e a quelli comunitari. L’elenco di pratiche previsto dalla legge non è chiuso, ma aperto anche ad altre modalità che tengano conto dell’interesse della vittima e della comunità. 

Esperienze di giustizia riparativa in Italia si sono verificate anche prima della riforma. Nel 2007, ad esempio, è iniziato un lungo percorso durato sette anni, che ha coinvolto vittime, familiari e coloro che hanno agito con violenza nella lotta armata tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Alternando incontri di mediazione reo-vittima a momenti di confronto e scambio in gruppo allargato, si è instaurato un dialogo tra i partecipanti che ha permesso una rilettura comune degli ‘anni di piombo’.

Nonostante ciò, il ricorso alle pratiche riparative rimane limitato, oltre che essere distribuito in modo disomogeneo nel territorio nazionale. Una delle ragioni è la mancanza di infrastrutture adatte alla realizzazione degli incontri. Ma ci sono anche degli ostacoli culturali:

a livello di opinione pubblica queste pratiche vengono ancora viste come estremamente buoniste, orientate al perdono, oppure con un’ottica strumentale, come se automaticamente portassero all’autore di reato un’attenuazione o uno sconto della pena”,

spiega a Voice Over Foundation Federica Brunelli, mediatrice penale ed esperta in programmi di giustizia riparativa. “Non è una sottrazione ai diritti delle vittime, anzi. Si cerca di soddisfare quel bisogno di giustizia che può permanere anche dopo la fine del processo e, spesso, il beneficio è molto grande. Il 99% delle persone che partecipano a questi programmi dichiara di esserne soddisfatto”.

La giustizia riparativa mette in discussione logiche punitive e retributive profondamente radicate nella nostra società, messe in pratica in carcere ma anche nelle scuole, negli ospedali, nelle fabbriche e in molti ambiti della cittadinanza. In Sorvegliare e punire, lo storico e filosofo francese Micheal Foucault scriveva che le istituzioni punitive incarnano uno dei paradigmi con cui è stato applicato il concetto di disciplina, formula generale di controllo e organizzazione del cittadino in tutti gli ambiti della società dal Settecento in avanti. Il carcere, infatti, nasce nel seno della nuova società capitalista, che necessita di manodopera docile per la produzione industriale. Tramite il controllo e la punizione, il detenuto viene abituato all’obbedienza e alla conformità. Al contrario,

la giustizia riparativa contesta l’idea che chi fa del male vada punito con altro male, cerca di andare oltre il concetto di pena per domandarsi cosa ci sia dietro un reato e, soprattutto, come riparare una relazione che si è rotta. 

Comunità, riconciliazione e prevenzione: esperienze e casi studio internazionali e italiani

La comunità a cui appartengono gli attori coinvolti riveste un ruolo centrale e può diventare parte fondante del processo di riconciliazione. In alcuni casi, le pratiche riparative sono state utilizzate per gestire e risolvere conflitti che riguardano tutti i membri della comunità, come nel caso della Commissione per la verità e la riconciliazione, istituita nel 1995 in Sud Africa dopo l’apartheid. Attraverso la raccolta di racconti e testimonianze, quest’organo ha investigato le violazioni dei diritti umani e ha cercato di restituire una narrazione condivisa, suggerendo forme di riabilitazione e restituzione. 

Un caso significativo per l’Italia è quello della Sardegna, dove la costruzione del carcere di massima sicurezza di Nuchis, frazione di Tempio Pausania, in provincia di Sassari, ha generato un forte conflitto sociale. Da un lato, i detenuti trasferiti da altre regioni si sono ritrovati lontani dalle loro famiglie e in una condizione di maggiore isolamento, alimentando malcontento. Dall’altro, molti abitanti di Tempio hanno espresso timori per possibili infiltrazioni mafiose nel tessuto cittadino.

Sono state quindi istituite delle conferenze riparative, aperte alle persone detenute, alla cittadinanza, agli agenti di polizia penitenziaria, alla direttrice del carcere e agli educatori. Patrizia Patrizi, ordinaria di Psicologia giuridica e pratiche di giustizia riparativa all’Università di Sassari, che ha partecipato a questo progetto dalla sua origine, spiega a Voice Over Foundation l’importanza della circolarità degli incontri: “la disposizione a cerchio permette alle parti che di solito hanno funzioni e ruoli diversi di conoscersi reciprocamente e ricostruire la frattura che si è generata nella comunità”.

Nonostante le difficoltà e i cambi all’interno della direzione del carcere, gli incontri sono proseguiti e sono stati allargati anche agli studenti universitari. A partire da alcune riflessioni sollevate dalle persone detenute riguardo il senso di responsabilità che sentivano nei confronti dei figli, è emersa la necessità di coinvolgere in questo progetto anche le scuole, richiamandosi alla funzione preventiva della giustizia riparativa. “La dignità umana, la solidarietà, la responsabilità, la ricerca della verità attraverso il dialogo, cioè l’idea che dialogando con l’altro possiamo vedere verità che altrimenti ci sarebbero sconosciute: sono questi i valori della giustizia riparativa che abbiamo cercato di trasmettere a ragazzi e ragazze nelle scuole”, dice Patrizi. 

Tempio Pausania è la prima città riparativa in Italia, ma si ispira a esperienze internazionali, in particolare a quella di Hull, in Inghilterra. Qui, dal 2004, sono state introdotte pratiche di giustizia riparativa nelle scuole, nell’amministrazione comunale e nelle associazioni non profit, in risposta a un aumento della criminalità legato alla crisi economica e al deterioramento dei servizi, che aveva compromesso anche la qualità dell’istruzione. L’esperimento si è allargato e nel 2010 circa 3000 persone risultavano aver beneficiato di un percorso formativo alla giustizia riparativa. L’esempio di Hull mostra come “applicare il metodo della restorative justice in contesti caratterizzati da livelli elevati di conflittualità interindividuale e sociale, a loro volta derivanti da situazioni di povertà, disagio, deprivazione, è possibile e ha consentito di ottenere risultati significativi in termini di diminuzione dei conflitti”, scrivono Grazia Mannozzi e Giovanni Lodigiani in Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone.

Verso una giustizia orientata alla cura, alla convivenza e alla responsabilità collettiva

Questi esempi permettono di immaginare un modo diverso di costruire i rapporti tra le persone orientandoli alla responsabilità collettiva e alla partecipazione:

“la giustizia riparativa è, infatti, primariamente cura di sé attraverso la cura dell’altro”,

scrivono sempre gli autori in “Giustizia riparativa”. È la ricerca di un modo diverso di fare giustizia, orientato alla coesione sociale, al rispetto della dignità della vittima, alla sua partecipazione nella risoluzione del conflitto e al reingresso nella società di chi commette reati. Come spiega Claudia Mazzucato, docente di Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano, è necessario il passaggio da una giustizia rappresentata con la bilancia e con la spada per dividere e separare, all’immagine di un albero, simbolo di una giustizia che non serve per punire, ma per proteggere, promuovere la convivenza e partecipare insieme attivamente per ricostruire. 


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