Ponte sullo Stretto
Storie di espropri e resistenza dal Sud
di Dario Morgante
Ponte sullo Stretto: storie di espropri e resistenza dal Sud
di Dario Morgante
Dall’inizio di settembre 2025 i solerti operai della P.I.C.A. srl si recano ogni mattina al cantiere di via Lago Grande, a Ganzirri, frazione di Messina-Nord, a pochi passi dallo Stretto. Questa zona, celebre per la coltivazione delle cozze e per la sua bellezza paesaggistica, ricade nella Riserva Naturale di Capo Peloro e, proprio qui, il Comune di Messina ha avviato i lavori per una pista ciclabile che dovrebbe collegare l’area al borgo di Torre Faro, estremo settentrionale del territorio comunale e punto della Sicilia più vicino alla Calabria. In questo caso, il condizionale è d’obbligo:
la ciclovia, finanziata con due milioni di euro dal PNRR, ricade infatti nel perimetro del futuro cantiere del ponte sullo Stretto e, se sarà completata, dovrà essere rimossa poco dopo la sua inaugurazione.
Approvato il 6 agosto 2025 dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile (CIPESS), il progetto definitivo del ponte conclude un iter che, negli ultimi due anni, ha subito una brusca accelerazione per iniziativa del governo di Giorgia Meloni. Fissarne le origini è difficile, ma il dibattito politico sull’attraversamento stabile tra Sicilia e Calabria risale almeno al 1969, quando il ministro socialista Giacomo Mancini indisse un concorso internazionale di idee, introducendo per la prima volta il concetto di “campata unica”: un’arcata centrale senza piloni intermedi, pensata per superare la profondità del fondale dello Stretto. Il picco dell’ideologia pontista coincise con l’era berlusconiana: nel 2003 il progetto preliminare fu messo a gara e, nel 2005, assegnato al consorzio Eurolink. L’anno successivo il governo Prodi lo bloccò, definendolo “inutile e dannoso”, e la crisi economica del 2012, insieme al governo Monti, ne sancì la fine.
Oggi, però, il ponte sullo Stretto è tornato al centro della scena politica, diventando la punta di diamante del programma infrastrutturale del ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che se ne è fatto principale promotore. L’accelerazione dell’iter è stata resa possibile da una serie di stratagemmi normativi, tra cui il cosiddetto “decreto spezzatino” (decreto-legge n. 89 del 2024), concepito per suddividere l’opera in lotti funzionali e avviare i lavori senza un progetto esecutivo completo, eludendo così parte dei controlli amministrativi, ambientali e antimafia. Secondo i critici, questa procedura accresce il rischio di infiltrazioni e di gestione opaca del cantiere, oltre a far lievitare i costi, oggi stimati in circa 13,5 miliardi di euro, interamente a carico dei fondi pubblici stanziati dalle leggi di bilancio 2024-2025 e dall’aumento di capitale della società Stretto di Messina. La pronuncia del CIPESS di inizio agosto ha rappresentato il via libera politico definitivo all’opera, tanto che il giorno dopo il ministro Salvini annunciava: “Ora tocca ai tecnici. Il mio lavoro è finito”.
Tuttavia, un primo, seppur non vincolante, alt al progetto è arrivato quasi immediatamente. Il 29 ottobre 2025 la Corte dei Conti ha negato il visto di legittimità della delibera CIPESS, evidenziando la sua contrarietà alle normative europee in materia di ambiente e appalti, oltreché dubitando sulle reali coperture economiche dell’opera e sulla mancata valutazione di progetti differenti. La decisione ha suscitato forti reazioni politiche: Giorgia Meloni lo ha definito «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento» e ha attaccato direttamente i magistrati contabili, criticando le censure e le modalità della verifica. La Corte dei Conti ha risposto ribadendo che l’espressione di controllo si è svolta «su profili strettamente giuridici, senza alcun tipo di valutazione sull’opportunità e sul merito dell’opera».
Ponte sullo Stretto: il progetto, i costi e l’impatto sul territorio
La costruzione del ponte — una struttura sospesa con una campata centrale di 3,3 km, sorretta da piloni alti 400 metri, oltre 100 più della Torre Eiffel — è affidata al consorzio Eurolink, guidato da Webuild (ex Salini Impregilo), storica impresa italiana con oltre 120 anni di attività. Già coinvolta in inchieste ambientali, oggi l’azienda fa parte della lista di ditte che si occuperanno anche della “ricostruzione di Gaza”, prevista dal piano di spartizione delle terre palestinesi ideato da Trump e dai governi occidentali.
“Un progetto con penali miliardarie a carico dello Stato… che fagocita risorse importanti sottratte ai fondi di sviluppo e coesione destinate alle regioni del Sud Italia e che, inesorabilmente, devasterebbe due territori, in Sicilia e in Calabria”.
Così denuncia l’associazione ambientalista Italia Nostra, sottolineando come il ponte sullo Stretto non sia un’infrastruttura al servizio delle comunità, ma un gigantesco motore dell’estrattivismo infrastrutturale, capace di mobilitare l’intera filiera del cemento, dei cantieri e del consumo di suolo a vantaggio di pochi grandi attori industriali. “Il ponte è dannoso non solo perché trasformerebbe una città di 200mila abitanti in un gigantesco cantiere, non solo per i rischi sismici e geologici, né solo per le possibili infiltrazioni mafiose”, spiega a Voice Over Foundation Daniele Ialacqua, docente, ex assessore all’Ambiente e tra lə fondatorə del Comitato No Ponte Capo Peloro, che raccoglie numerosə residenti dell’area.
“L’infrastruttura sarebbe un dramma per il paesaggio, bene prezioso e identitario per la comunità messinese”.
Espropri per il ponte: le comunità di Messina e Calabria in lotta
Ialacqua e la sua famiglia — Mariella Valbruzzi, insegnante e attivista, e i due figli, Nicola e Giuseppe — abitano a Torre Faro, e per loro il destino è stato beffardo. Dopo una vita spesa nella lotta No Ponte, consultando le mappe ufficiali del progetto, hanno scoperto che il muro della loro casa coincide con uno dei confini del mega cantiere. “Si pensa che l’opera riguardi solo chi riceverà una lettera di esproprio, ma quasi tuttə lə cittadinə saranno coinvoltə dai lavori”, racconta Ialacqua.
“Abbiamo lanciato lo slogan ‘Siamo tuttə espropriandə’. Non perderanno qualcosa solo coloro che vedranno scomparire case, terreni o attività produttive, ma tuttə noi che viviamo questo territorio, in termini di salute, tranquillità, paesaggio, e ricchezza naturale dello Stretto travolti dal ponte e dai suoi cantieri”.
I cantieri, infatti, occuperanno aree molto ampie: 43 km² sul lato messinese e 15 km² su quello calabrese, trasformando interi quartieri in zone completamente asservite alla costruzione del ponte. Sul versante siciliano, ciò equivale a un quinto dell’intero territorio comunale di Messina, un’area pari a 6.000 campi da calcio. Il dato risulta ancora più significativo sul lato calabrese: la piccola Villa San Giovanni, appena 12 km², verrebbe quasi interamente sommersa dai lavori, che interesserebbero anche i comuni limitrofi. Nel complesso, tra Sicilia e Calabria si delineerebbe una delle più estese aree di trasformazione edilizia mai previste nel Paese. Per comprenderne la portata basta un confronto con i dati: secondo il più recente Rapporto ISPRA, nel 2024 sono stati coperti da nuove superfici artificiali quasi 84 km² di suolo naturale, ossia 2,7 m² al secondo, il valore più alto dell’ultimo decennio. La causa principale di questa conversione di suolo è rappresentata proprio dai cantieri, che nel 2024 hanno cementificato circa 49 km² di territorio. Confrontando i numeri, dunque, può dirsi che l’area potenzialmente cantierizzabile per la sola opera del ponte (quasi 60 km²) supererebbe l’insieme di tutte le nuove superfici artificiali realizzate nel 2024 in Italia.
“Si parla spesso dell’irrealizzabilità dell’opera per la lunghezza della campata, ma la vera impossibilità è legata alle opere accessorie: venti chilometri di collegamenti stradali, altrettanti di ferrovie, pontili, aree logistiche, gallerie” continua Ialacqua. “Tutto questo condannerà la città a diventare un cantiere a cielo aperto.”
L’ex assessore ricorda anche il rischio di subsidenza: “Gli scavi profondi e il peso delle gallerie possono alterare l’equilibrio idrogeologico e causare fratture o cedimenti del terreno, con danni agli edifici e al patrimonio urbano”.
Sullo sfondo, resta il delicato tema degli espropri. Saranno 448 le unità immobiliari coinvolte sul versante siciliano e circa 200 su quello calabrese, tra abitazioni – di cui il 60% prime case – attività commerciali e lotti agricoli o industriali. L’area di Granatari è la più colpita, poiché lì è previsto lo sbocco di arrivo del ponte, ma saranno coinvolte anche famiglie che vivono molto lontano dall’opera. Il secondo cantiere messinese per estensione, infatti, sorgerà nel quartiere di Contesse, nella zona sud della città a oltre 15 km da Granatari. Lì saranno espropriate 51 abitazioni e demoliti undici edifici residenziali e tre manufatti industriali per far spazio ai nuovi binari di collegamento tra il tunnel ferroviario e la linea Messina–Catania–Siracusa. Tra gli immobili da abbattere spiccano il “Residence degli Agrumi” e il palazzo Corallo, completati solo pochi anni fa, quando, dopo lo stop del governo Monti, Contesse sembrava definitivamente esclusa dai vincoli del ponte. Oggi, quei palazzi sono il simbolo della mancanza di una pianificazione urbanistica coerente e della logica calata dall’alto con cui il progetto continua a imporsi sul territorio.
Chi guadagna dal ponte e chi paga il prezzo della trasformazione
“Quando Monti mise in liquidazione la società Stretto S.p.A., lə abitanti di Granatari erano così convintə che non si parlasse mai più di ponte da iniziare a ristrutturare i propri appartamenti”, racconta Eros Giardina, pensionato marittimo residente in un lotto che oggi, secondo le mappe ufficiali, ricade proprio nell’area colorata di viola: quella destinata al cantiere principale.
“La nostra vita è sempre stata vissuta sotto la spada di Damocle del ponte: la minaccia degli espropri ci accompagna da decenni e, anche se non dovesse mai realizzarsi, le nostre esistenze e il nostro benessere psicologico sono già stati segnati”.
Anche Fiorella Puglisi Allegra, ottantacinquenne residente a Granatari da mezzo secolo, racconta il suo legame con il territorio: “La popolazione esproprianda è composta soprattutto da persone adulte o anziane che non hanno alcuna intenzione a trasferirsi. Vivere qui è una scelta, e nessun indennizzo può ripagarci.” Sul tema del risarcimento torna anche Eros: “Per legge dovrebbero riconoscerci il valore di mercato attuale dell’immobile, con un 15% in più. Ma moltə di noi, soprattutto anzianə, non possono accedere a mutui, e l’indennizzo non tiene conto degli investimenti fatti negli anni né delle necessità delle persone con disabilità che hanno adattato le proprie case ai bisogni dei propri cari. Il governo deve capire che quando si toccano le case delle persone si tocca la loro intimità, la loro storia, la loro vita”. Per sostenersi e organizzarsi, Fiorella, Eros, Ialacqua e moltə altrə residenti di Torre Faro e Granatari si riuniscono ormai da mesi a Casa Cariddi, uno spazio aperto pensato come luogo di incontro e dibattito per chi è maggiormente colpito dall’opera. Ogni giovedì le espropriande tengono assemblea nella sede, che si trova vicino alla piazzetta di Padre Pio, a Torre Faro, a pochi metri dal celebre Bar Eden, noto per le sue granite con brioches. Su un grande tavolo centrale si trovano distese enormi mappe che rappresentano il progetto, i quartieri coinvolti e le unità da espropriare.
“Moltə cittadinə hanno scoperto di essere coinvoltə negli espropri solo grazie alla nostra attività di sensibilizzazione o cercando le mappe sui siti online. Nessuna comunicazione ufficiale è ancora arrivata, nonostante i lavori fossero annunciati prima per fine 2025 e ora per maggio 2026”, sottolinea Ialacqua. Le pareti della sala sono ricoperte di poster e volantini della resistenza No Ponte, ricordando le mobilitazioni passate e dando spazio a quelle future. La lotta continua, come ha dimostrato il corteo nazionale del 29 novembre 2025 a Messina, dove, nonostante la pioggia battente, circa quindicimila persone si sono riunite per dire no a un modello economico e politico che concentra profitti e potere in poche mani, lasciando alle comunità i costi sociali, ambientali e territoriali. Accanto ai comitati cittadini — No Ponte Capo Peloro, Invece del Ponte, Assemblea No Ponte — a sfilare sono state realtà locali provenienti da tutto il Meridione (Italia Nostra, A Sud, Comitato No Muos, Libera, Legambiente, etc.). Da anni denunciano un Sud trattato come retroterra da scavare, attraversare, sacrificare, costituendo un fronte ampio e deciso a rivendicare il diritto del Meridione a non essere più terreno di sperimentazione per grandi opere calate dall’alto, soggiogato da promesse di occupazione e progresso.
“Abbiamo visto sfilare il più grande corteo No Ponte degli ultimi anni”, ha aggiunto Ialacqua e “ciò non arriva per caso ma è il frutto dell’attivismo dei comitati, che hanno trasformato il sogno del ponte nella sua cruda realtà”. Poi conclude: “Questo progetto divora le risorse finanziarie che sarebbero necessarie al territorio per la messa in sicurezza, per le opere infrastrutturali viarie e ferroviarie, per gli interventi nei servizi idrici e sociali. Basti pensare che le somme dirottate dalla Regione siciliana per il ponte sarebbero state sufficienti per risolvere i problemi di siccità dell'isola. Non abbiamo bisogno di un'opera che è un affare per pochi, ma d'interventi nell'interesse di tutte: sono due idee di società e due modelli di sviluppo opposti".