Il lungo genocidio palestinese: i metodi dell’eliminazione
Seconda parte
di Thomas Aureliani
Il genocidio palestinese è peculiare perché può essere interpretato come uno dei processi di eliminazione di un popolo più lunghi della storia contemporanea. Un genocidio continuo ma “intermittente” nel senso letterale del termine, cioè un processo persistente e a intervalli più o meno regolari in cui ai momenti di eliminazione fisica eclatanti si è alternato un genocidio culturale, politico, sociale, economico, religioso, morale e biologico, i campi citati da Raphael Lemkin, l’inventore del termine genocidio, a cui occorre aggiungere il campo ecologico.
Leggendo il contesto Palestina-Israele come un colonialismo d’insediamento, le forze sioniste israeliane hanno perseguito da sempre la “logica dell’eliminazione” dei palestinesi come popolo “in quanto tale”. Dalla fine dell’800, i pensatori e i leader politici sionisti-israeliani, ancor prima della nascita dello stato d’Israele, hanno anelato uno stato per la sola popolazione ebraica mediante l’eliminazione e/o la deportazione della popolazione araba, negando esplicitamente l’identità e la storia palestinese anche attraverso il discorso politico.
Quest’ultimo si è articolato attraverso affermazioni che hanno rimosso totalmente i palestinesi. L’ex premier israeliana Golda Meir affermava nel 1969 che “i palestinesi semplicemente non esistono”. Il ministro della difesa Gallant nell’ottobre 2023 ha dichiarato “stiamo combattendo animali umani”. Ancora prima dell’offensiva di terra nella Striscia sul finire dell’ottobre 2023, Netanyahu riprende invece la vicenda biblica di Amalek: gli “amaleciti”, secondo la Torah, furono il primo popolo a muovere guerra agli israeliti – perciò sinonimo del male assoluto da estirpare anche eliminando donne e bambini. Queste dichiarazioni hanno l’obiettivo di de-umanizzare e criminalizzare un intero popolo.
Dal punto di vista del genocidio “fisico” esso si è manifestato in Palestina attraverso le guerre, l’utilizzo della fame come arma, i massacri e le pulizie etniche. Come segnalano gli studiosi Rashed e Short la pulizia etnica non è qualcosa di alternativo al genocidio, ma un metodo peculiare per perpetrarlo: l'allontanamento forzato di gruppi con una cultura territorialmente delimitata può lasciare il gruppo “socialmente morto” anche se vengono usate misure non letali per espellere i suoi membri. Tali azioni genocidarie sono state attuate massicciamente.
Dalla Nakba del 1948, quando circa 750 mila palestinesi furono cacciati dalle loro case dalle forze sioniste, circa 500 villaggi furono distrutti e migliaia di persone torturate e uccise; passando per i massacri perpetrati sui civili come quello nel campo profughi libanese di Sabra e Shatila nel 1982 ad opera della IDF che costò la vita a 3,500 palestinesi; l’uccisione di oltre mille persone come rappresaglia dopo la prima intifada del 1987-1991; le migliaia di civili palestinesi uccisi a seguito dei vari assalti alla Striscia di Gaza nel 2008-2009, nel 2012, nel 2014, nel 2021, nel 2022 e per finire con l’attuale mattanza di civili a Gaza cominciata dopo il 7 ottobre 2023, con oltre 55 mila persone uccise, secondo le cifre ufficiali, ma se ne stimano almeno il 40% in più, tra cui migliaia e migliaia di donne e bambini/e.
Proprio l’accanimento contro obiettivi civili – sia in termini di persone non combattenti sia i luoghi non adibiti a funzione militare – traccia la linea di demarcazione che distingue la guerra da un genocidio. Secondo il sociologo Martin Shaw ciò che accomuna i genocidi non è tanto il focus su una particolare identità, o “razza”, da parte dei perpetratori, quanto appunto l’obiettivo mirato dei civili. Non meno grave è lo spopolamento forzato degli stessi, che in Palestina è stato favorito da azioni e politiche pensate a tavolino dallo stato sionista di Israele, come la demolizione delle case palestinesi o le revoche dei permessi di residenza, pratiche molto utilizzate soprattutto in Cisgiordania e a Gerusalemme Est ma anche all’interno dello Stato ebraico.
Tuttavia, accanto all’eliminazione fisica e allo sfollamento, il genocidio palestinese si è materializzato attraverso la distruzione del patrimonio culturale. Nel corso dei decenni, e non solo durante le guerre, si è assistito al saccheggio e alla distruzione di biblioteche, centri di culto, moschee, musei, edifici storici, siti archeologici, scuole, università e interi villaggi prima svuotati forzatamente e poi rasi al suolo o letteralmente coperti dalla vegetazione importata dall’Europa, annientando al contempo la memoria, la coscienza collettiva e l'identità della popolazione locale.
Solo per la costruzione del muro di separazione, nei primi anni del 2000, si stimano circa 1,100 siti archeologici saccheggiati, danneggiati o distrutti, mentre le ultime operazioni militari israeliane a Gaza hanno provocato la devastazione di almeno 200 siti nella Striscia. La volontà di eradicare l’identità e la memoria palestinese – diversi studiosi parlano di “memoricidio” – si è poi concretizzata attraverso la “giudaizzazione” dei nomi arabi dei villaggi, dei fiumi, delle sorgenti, dei parchi, delle strade e persino dei cartelli stradali. Il processo di rimozione dell’arabo dalla sfera pubblica ha viaggiato di pari passo con la negazione della storia e dei traumi palestinesi: nel 2009 il ministro dell’educazione israeliano ha deciso di vietare l’utilizzo della parola “Nakba” dai libri di testo dei bambini arabi, mentre nel 2011 la Knesset ha approvato la Legge sulle Fondazioni di Bilancio (nota come “Legge sulla Nakba”). Quest’ultima consente allo Stato di ridurre o eliminare i finanziamenti a qualsiasi istituzione, comunità o altro ente che si impegni in attività che mettano in discussione la definizione di Israele come “Stato ebraico e democratico”; che commemori il Giorno dell'Indipendenza di Israele come “giorno di lutto” o che danneggi i simboli nazionali israeliani.
Uno degli esempi più eclatanti di “memoricidio” è stata la costruzione del memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem – uno dei più visitati in Israele – nei pressi delle rovine del villaggio palestinese di Deir Yassin. Qui si consumò uno dei peggiori massacri di civili perpetrati durante la Nakba dai combattenti sionisti appartenenti ai gruppi armati clandestini ebraici dell'Irgun e della Banda Stern. Pratiche come queste sono tipiche del genocidio dei colonialismi d’insediamento: la sovrascrittura della memoria traumatica degli occupanti su quella degli occupati.
L’intento “eliminatorio” del sionismo e di Israele nei confronti dei palestinesi si è poi manifestato in altri campi, come quello politico e sociale, con l’occupazione dei territori palestinesi dal 1967 e il processo mai terminato e anzi intensificato negli ultimi anni di colonizzazione della Cisgiordania. L’insediamento delle colonie autorizzate dallo Stato ebraico e degli “outpost” così come la crescita del movimento dei settlers hanno minato la costruzione di un’autorità e un’identità politica palestinese forte e di una società coesa. I legami e le relazioni sociali e familiari sono difficili da mantenere in un territorio caratterizzato da una lunga serie di ostacoli fisici che rendono impossibile la circolazione e il libero movimento, tra cui posti di blocco costantemente presidiati dalle forze israeliane, da società di sicurezza private o da coloni, blocchi stradali, barriere e muri.
Dal punto di vista economico ed ecologico è altrettanto genocidario, nel senso proposto da Lemkin, l’intento deliberato di imporre politiche di restrizione al movimento di merci nei Territori Occupati e a Gaza in particolare, specialmente di generi alimentari, fenomeno questo che si è sviluppato con intensità spaventosa durante l’attuale crisi umanitaria; ma anche il controllo delle risorse naturali, dell’acqua nello specifico; l’accaparramento delle terre coltivabili; le restrizioni alla pesca; la deforestazione; la sostituzione delle colture locali, come gli ulivi, e la loro distruzione; la dislocazione di aziende e discariche altamente inquinanti in terra palestinese, con conseguente peggioramento della salute degli abitanti.
Un’importante partita Israele la gioca poi nel campo che Lemkin chiama “biologico”, cioè quell’insieme di misure che inducono alla decrescita demografica delle popolazioni considerate “di sangue diverso”, in questo caso i palestinesi, e, allo stesso tempo, sostengono la natalità della propria popolazione, gli ebrei israeliani. Se le uccisioni, il blocco degli aiuti umanitari, l’utilizzo della fame come arma e il controllo delle merci in ingresso a Gaza possono essere considerati esempi delle azioni che hanno causato la decrescita demografica e il contenimento dei tassi di natalità e fertilità dei palestinesi, per quanto riguarda le misure del secondo tipo, Israele ha da sempre perseguito l’imperativo politico nazionale di aumentare la popolazione ebraica, favorendo l’immigrazione degli ebrei e promuovendo misure a favore della natalità.
Specialmente dopo il 7 ottobre 2023, lo Stato ebraico ha incoraggiato la riproduzione assistita postuma (Par), che si riferisce al prelievo di gameti – sperma, e in misura minore ovociti – da un individuo deceduto (soldati caduti ad esempio) per utilizzarli successivamente in tecnologie riproduttive quali la fecondazione in vitro o l’iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi (Icsi). Israele è l’unico paese a consentire l’estrazione di sperma post mortem anche senza consenso preventivo, facendo solamente affidamento sul desiderio della persona morta riferito da chi presenta la richiesta. Queste politiche stanno dando i propri frutti: Israele è il primo per tasso di natalità tra i paesi OCSE.
Questi esempi dimostrano come il colonialismo d’insediamento sionista abbia da sempre espresso un intento genocidario nei confronti della popolazione palestinese. Intento che si è concretizzato non solo attraverso massacri ed espulsioni forzate ma mediante un processo molto variegato di “eliminazione dei nativi” nei diversi campi individuati da Lemkin. Guardare al genocidio come a una struttura-processo storico-sociale multiforme alimentato da svariate tecniche e metodi – evitando al contempo di pensare che l’unico ammissibile dalla storia sia l’Olocausto ebraico vissuto in Occidente – permetterebbe di comprendere più efficacemente diversi contesti in cui si è consumato o si sta consumando l’annientamento di un gruppo umano “in quanto tale”. Questo esercizio consentirebbe anche di restituire dignità alla storia, alla memoria e ai traumi dei popoli oppressi come quello palestinese.