Perché celebrare il minimo etico ostacola il vero cambiamento

di Dalia Ismail

Quando Papa Francesco ha finalmente parlato con una certa chiarezza del genocidio in Palestina, con parole che sembravano riconoscere totalmente l’orrore in atto, molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Altri si sono lanciati in una celebrazione collettiva. Ma davvero serve coraggio per dire che un genocidio è inaccettabile? Davvero bastano frasi simili per essere trattati come paladini morali?

Nei giorni  immediatamente successivi al 7 ottobre 2023, il Papa - invece di schierarsi incondizionatamente dalla parte della popolazione assediata, affamata, sottoposta da un secolo al colonialismo d’insediamento e alla pulizia etnica - ha aderito alla narrazione dominante, che coincideva con la propaganda israeliana. Ha parlato del diritto di Israele a “difendersi” e ha condannato apertamente i palestinesi, mentre i bombardamenti su Gaza erano già in corso. Solo in un secondo momento, dopo questa premessa, ha evocato la situazione di Gaza, accennando al fatto che anche i palestinesi sono vittime.

Il suo percorso - come quello di tanti altri leader politici - ha seguito il solito copione: prima il bilancino, poi le formule sulla sofferenza “di entrambi i popoli”. Solo quando la catastrofe è diventata troppo evidente, troppo sporca, troppo compromettente, è cambiato il linguaggio. Solo allora è arrivata anche l’apertura alla richiesta di un’indagine internazionale su Israele per genocidio, ma a quel punto era già stata la Corte Internazionale di Giustizia a dichiarare la plausibilità di quell’accusa.

E il cambio di pontificato ha dimostrato che le strutture di potere non cambiano:

se da un lato le parole di Francesco sono state celebrate come coraggiose, dall’altro il nuovo Papa Leone XIV ha accolto in Vaticano il presidente israeliano Isaac Herzog, offrendo una legittimazione simbolica dell’entità genocidiaria.

Un gesto che ha suscitato forti polemiche e che rivela come, al di là delle parole, la continuità diplomatica con Israele rimanga intatta. È lo stesso meccanismo che vale per i presidenti del Consiglio e per chiunque occupi una posizione di vertice in un paese: le persone cambiano, così come il linguaggio, ma gli interessi materiali e i rapporti di potere restano gli stessi.

Tutto ciò non significa negare la presa di posizione di Papa Francesco, uno dei pochi  ad esporsi in modo netto sul genocidio palestinese. Il suo intervento ha avuto un peso, e per il popolo palestinese è stato importante. Ma è proprio questo il punto:

se parole così elementari e umane sono sembrate straordinarie, ciò rivela la misura del degrado morale e politico in cui ci troviamo.

Gli altri leader - politici, istituzionali, progressisti, liberal - non si sono esposti con altrettanta chiarezza, o si sono esposti molto più tardi, o non si sono esposti affatto. E così, ciò che dovrebbe essere il minimo etico appare come una rottura epocale. Il buonsenso si trasforma in un gesto coraggioso. La parola giusta, pronunciata tardi, diventa un merito da celebrare. Ma non perché sia di per sé così potente - piuttosto perché tutto il resto è degradante. Ed è questa sproporzione, questo squilibrio nel contesto, il vero problema. 

Si tratta di parole che non mettono mai in discussione i meccanismi materiali del potere: non bloccano gli accordi militari, non interrompono le forniture, non modificano le leggi. Producono un senso di sollievo, ma non effetti concreti. 

Ciò che avviene, a livello più profondo, è ciò che il sociologo francese Pierre Bourdieu ha definito “potere simbolico”: la capacità di far apparire come naturale, necessario o persino eroico qualcosa che in realtà è solo riconosciuto come tale. Bourdieu spiega che il “capitale simbolico” esiste solo perché viene legittimato dalla società. È la stima sociale, il credito morale, concesso da chi guarda - non dal personaggio che si esprime o agisce in sé. E quando tutto il contesto è impoverito, anche un gesto normale, detto con i toni e i tempi giusti, può assumere un valore sproporzionato. È così che la normalità viene celebrata come eccezione, e l’ovvio come atto di rottura.

Questo non solo distorce la percezione del coraggio, ma abbassa le aspettative collettive. Invece di pretendere posizioni radicali, trasformative, strutturali, ci abituiamo a ringraziare chi - dopo settimane o mesi - trova il coraggio di dire che massacrare i bambini è sbagliato.

È una forma di consenso gestito, di dissenso incanalato. È un equilibrio apparente, che protegge l’ordine delle cose sotto la maschera del cambiamento. Come suggerisce Pierre Bourdieu nelle sue analisi sul potere simbolico, il prestigio e la legittimità non derivano dal merito di un personaggio, ma perché vengono percepiti come naturali, non come costruiti. È questo il meccanismo attraverso cui il capitale simbolico consolida l’autorità, anche in assenza di azioni reali.

Quando Elly Schlein e Giorgia Meloni esprimono solidarietà alla resistenza ucraina, le loro parole non pesano allo stesso modo agli occhi delle persone. La condanna dell’aggressione russa, se pronunciata da Schlein, appare al pubblico come coerente con un suo capitale simbolico, legato ai diritti civili e ai valori progressisti. La stessa condanna, se espressa da Meloni, è letta come strumentale e non autentica, proprio perché si scontra con altri elementi del suo posizionamento simbolico: valori conservatori e di destra. Il prestigio e la credibilità, dunque, non sono mai neutri e legati alle azioni reali: sono efficaci perché percepiti come spontanei, cioè come parte “naturale” dell’identità di chi parla.

In questo senso, quando celebriamo come straordinari gesti che rappresentano appena il minimo etico - come una dichiarazione del Papa su Gaza o una di Elly Schlein sui diritti civili - stiamo solo rafforzando un equilibrio e un immaginario che noi abbiamo rafforzato e di cui siamo già convinti. 

Parole che si presentano come cambiamento, ma servono a proteggere lo stato delle cose. È una forma di rassicurazione simbolica: produce consenso senza toccare le strutture. Rassicura. Ma non trasforma. 

Applausi per chi parla senza disturbare troppo 

Un altro caso eclatante è stata la mozione unitaria sulla Palestina promossa dal centrosinistra italiano. Celebrata da molti ambienti pro-Palestina come un “passo avanti”, è stata trattata come una svolta politica. Eppure, nei contenuti, non rompe nessuno dei dispositivi ideologici che hanno permesso l’orrore:

non nomina il genocidio, non riconosce il colonialismo, ripropone la retorica della “sicurezza di Israele” e criminalizza la resistenza.

Nessuna parola sui prigionieri politici palestinesi. È un testo che ricalca il linguaggio istituzionale, prudente e accomodante, una formula calibrata per sembrare netta, per placare la rabbia degli elettori riguardo al genocidio, ma costruita apposta per non cambiare realmente la situazione. 

Questo tipo di iniziative - timide, calibrate, ma fortemente simboliche - vengono costruite mediaticamente per placare il disagio collettivo. È un trucco: dare al pubblico l’impressione che “qualcosa si sta muovendo” per evitare che chieda davvero giustizia.

E proprio perché arrivano tardi, dopo lunghi silenzi e con estrema fatica, queste mosse diventano intoccabili: non si possono criticare, perché “è già tanto che siano arrivate”, e bisogna “incoraggiare” questi personaggi a continuare così; non si deve rischiare di scoraggiarli e allontanarli. Il risultato è che non si può dire che sono insufficienti - anche quando lo sono - perché la sola esistenza del gesto diventa un valore in sé, indipendentemente dal suo contenuto o dalla sua efficacia.

Emblematica, in questo senso, è l’immagine di Elly Schlein che sostiene i due parlamentari PD a bordo della Global Sumud Flotilla: due figure che, per certo, hanno agito in contrasto con la linea del partito. Il PD le ha messe in vetrina per ripulirsi l’immagine senza toccare minimamente le strutture di potere interne, quelle che continuano a garantire copertura politica ai lobbisti del sionismo.

È un’operazione cinica, che sfrutta il coraggio dei singoli per costruirsi una facciata “radicale”, mentre la sostanza resta invariata.

Un meccanismo simile si applica molto con la gestione dei diritti civili da parte del Partito Democratico e dell'intera ala progressista. Ma questi temi, invece che essere leva di trasformazione reale, diventano elementi di marketing politico. Elly Schlein viene spesso raccontata come il volto nuovo del progressismo: giovane, femminista, lesbica, attenta alle battaglie per i diritti civili. Ma dietro a questa immagine, nella sostanza politica del Partito Democratico, poco è cambiato.

Le posizioni economiche rimangono allineate con le compatibilità di mercato, con l’adesione piena alla NATO e alle politiche belliciste

Nel modello neoliberista, anche le battaglie sociali sono strumenti di immagine, non sfide al potere. Si finisce per discutere se un partito usa parole inclusive, ma non se appoggia politiche di guerra. Si parla di diritti civili, ma si evita il tema della redistribuzione economica. Si promuove il matrimonio egualitario, ma si tace sull’alleanza con un regime colonialista e genocidario. Così, la politica si concentra sulla rassicurazione, e tutto ciò che potrebbe davvero cambiare le cose viene messo da parte. Appare come esagerato. Ma se basta così poco per sentirsi rappresentati, forse il problema non è chi disturba la festa - ma chi si accontenta di una festa qualsiasi.

Celebrano il minimo per impedirci di chiedere il giusto

Il danno non è solo simbolico. Quando si celebra l’ovvio come se fosse rivoluzionario, si alimenta un sistema in cui il simbolo di una posizione vale più della sua efficacia. 

Una volta che l’ansia morale è placata da un tweet, una mozione o un’intervista calibrata, tutto torna al suo posto. La macchina dell’ingiustizia continua a funzionare. Solo più silenziosamente.

Questo non accade per caso. Il modo in cui media, partiti e singoli esaltano certi gesti - deboli, tardivi, ambigui - risponde a una funzione precisa:

gestire il disagio sociale e contenere la radicalità.

L'obiettivo è coltivare la cultura della gratitudine per chi dice mezza verità. Ma la verità è che la critica strutturale è solo scomoda al potere, non esagerata.


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