Il lungo genocidio palestinese: le radici coloniali
Prima parte
di Thomas Aureliani
Il noto giornalista italiano Enrico Mentana, durante un evento pubblico, ha definito dal suo punto di vista e con una certa enfasi il concetto di genocidio, una prospettiva che vale la pena riprendere perché ricalca due delle argomentazioni preferite da chi pensa che il genocidio palestinese non lo sia:
“…non mi si parli di genocidio. Per due motivi: primo perché ancora oggi – come amano dire quelli di Hamas… dal fiume al mare… dal Giordano fino al Mediterraneo – vivono più palestinesi che ebrei israeliani e non si è mai visto un genocidio che parte da condizioni di questo tipo…
Secondo, il genocidio è un'altra cosa: il genocidio è la pianificazione sulla carta dell'eliminazione di un intero popolo. Il genocidio fu quello che venne concepito nel gennaio del 1942 nella conferenza del Wannsee dagli uomini di Hitler che decidono di pianificare come sappiamo il rastrellamento in tutti i territori di tutti gli ebrei […] è successo in tutta Europa con milioni di persone che sono state rastrellate, messe nei ghetti, portati nei centri di raccolta, messi sui treni piombati portati ad Auschwitz e portati alla morte, questo è il genocidio…
Tali argomentazioni, abbastanza comuni nel panorama occidentale, soffrono di due patologie molto peculiari che hanno intaccato il dibattito occidentale sul “possibile” genocidio a Gaza: una visione coloniale del concetto e del fenomeno – tendenza che allo stesso tempo estromette il colonialismo e la “colonialità” da quello stesso dibattito – e l’esclusività/unicità dell’Olocausto come primo (e spesso unico) genocidio ammissibile dalla storia. Al tempo stesso, l’eccessivo ancoraggio concettuale alla definizione che ne danno le Nazioni Unite nella Convenzione del 1948 non ha contribuito a rendere più profondo un dibattito che spesso è rimasto ad appannaggio degli esperti di diritto internazionale. Un approccio sociologico al genocidio che metta in luce i legami con il colonialismo d’insediamento e le peculiarità del sionismo, così come una rilettura del pensiero di Raphael Lemkin – l’avvocato ebreo-polacco a cui si deve l’introduzione del termine – potrebbero invece aiutare non solo a migliorare la qualità del dibattito pubblico e politico attuale ma favorirebbero la comprensione del fenomeno nella sua complessità, evitando concezioni riduzionistiche.
Il genocidio è definito all’interno della Convenzione ONU del 1948
“come qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico o religioso:
uccidere membri del gruppo
causare gravi danni all'integrità fisica e psicologica dei membri del gruppo
sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita che ne provochino la distruzione fisica, totale o parziale
porre misure destinate a prevenire le nascite all'interno del gruppo
trasferimento forzato dei figli del gruppo a un altro gruppo.
Diverse istituzioni e organizzazioni internazionali – tra cui l’ONU attraverso i rapporti della relatrice speciale sui territori palestinesi occupati Francesca Albanese (“Anatomia di un genocidio” e “Il genocidio come cancellazione coloniale”) e Amnesty International – hanno efficacemente applicato tale definizione alla situazione odierna di Gaza mediante testimonianze dirette sul campo dei giornalisti palestinesi e della gente comune, dati, immagini, video e dichiarazioni dei soldati e dei leader israeliani.
Grazie anche alle mobilitazioni delle organizzazioni palestinesi e al movimento di solidarietà cresciuto in USA ed Europa, il genocidio come termine utilizzato per definire ciò che sta accadendo a Gaza è entrato – seppur faticosamente – nell’arena pubblica occidentale, ed è stato accettato come frame interpretativo anche da diversi e diverse opinionisti/e, giornalisti/e, leader politici, organizzazioni sindacali e associazioni di base. Nonostante le voci contrarie siano ancora molte (come quella di Mentana, ma in Italia ricordiamo anche la senatrice a vita Liliana Segre o lo storico Marcello Flores) è accettato che oggi a Gaza si possa parlare di genocidio senza sembrare alieni venuti da Marte. Questo anche grazie alla decisione della Corte Internazionale di Giustizia di procedere alla verifica delle accuse di genocidio mosse dal Sudafrica contro Israele.
Rileggendo la formulazione di Lemkin – che spinse molto a livello internazionale per l’elaborazione della Convenzione ONU – e riflettendo sulle modalità attraverso le quali si è evoluto il dibattito sociologico sul tema,
è possibile interpretare l’intera vicenda palestinese – non esclusivamente ciò che accade a Gaza– attraverso il prisma interpretativo del genocidio.
Prospettiva quest’ultima non molto comune quando si parla di Israele e Palestina. A seguito delle attuali vicende, gli stessi Genocide studies hanno visto vivacizzare il loro dibattito interno sul tema: anche se in pesante ritardo, è del 31 agosto 2025 la risoluzione dell’associazione internazionale degli studiosi del genocidio che riconosce il massacro di Gaza come tale. Tutto questo dopo decenni in cui la questione palestinese è rimasta non solo ai margini, ma è stata deliberatamente rimossa dalle riflessioni e dagli studi degli esperti in materia. La ricerca accademica occidentale si è invece concentrata prevalentemente sul genocidio ebraico – da cui si è sviluppata una branca autonoma, gli Holocaust studies – e su altri casi come quello armeno, cambogiano, ruandese, bosniaco. Anche solo sulla possibilità di un genocidio palestinese perpetrato dal sionismo/Israele, l’accademia occidentale – a parte qualche rarissima eccezione – non ha mai nemmeno aperto un dibattito.
Questa rimozione deriva da una serie di vizi che hanno riguardato l’intera riflessione sul genocidio.
In primo luogo, molte delle ricerche e degli studi si sono appiattiti su una visione che definisce il termine -e dunque il fenomeno associato- essenzialmente come un sinonimo di omicidio di massa. Tale interpretazione risente fortemente dell’immane tragedia dell’Olocausto che ha reso lo sterminio degli ebrei come il paradigma assoluto della distruzione di un popolo, rendendo qualsiasi altra violenza di scala gerarchicamente inferiore. È la visione di Mentana riportata in apertura: l’esclusività/unicità dell’Olocausto e l’idea che il genocidio sia esclusivamente l’eliminazione fisica a tavolino di un gruppo umano, e di cui la vicenda del popolo ebraico assurge a paradigma.
Questa interpretazione riduzionista del genocidio esclude la validità dell'esperienza di altre vittime di genocidio, ad esempio di quello coloniale:
l'affermazione dell'Olocausto come soglia del trauma nella modernità occidentale rende invisibile l'esperienza del trauma delle minoranze e dei popoli sfollati per secoli, compreso, significativamente, quello palestinese e quello di tutti gli altri gruppi umani colonizzati e oppressi “non bianchi”.
Come ricordava Aimé Césaire, poeta, scrittore e politico francese originario della Martinica, nel suo “discorso sul colonialismo”, i crimini compiuti dal nazismo sono stati ritenuti così terribili dal “borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo” (si legga, europeo o statunitense, comunque occidentale) “perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l'uomo, non è l'umiliazione dell'uomo in quanto tale, ma il crimine contro l'uomo bianco, l'umiliazione dell'uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei cooli dell'india e dei Negri dell'africa” da parte delle potenze coloniali europee. Il fatto di rendere unico e incomparabile l'Olocausto ha avuto perciò una duplice funzione: da un lato è servito per circoscrivere l’abominio nazista come esperienza eccezionale e dunque estranea alla tradizione europea; mentre dall'altro lato è stata un’ottima opzione per escludere e rendere invisibile la brutale violenza coloniale europea dal novero dei genocidi passati alla storia.
Il genocidio coloniale ci riporta alla necessità di distinguere tra il concetto di omicidio di massa e genocidio. Nelle sue opere, (specialmente in Axis Rule in Occupied Europe del 1944 nel capitolo IX sul genocidio), Lemkin evidenziava come l’eliminazione di un popolo potesse materializzarsi attraverso svariati “metodi e tecniche” diverse dall’eliminazione fisica e sottolineava quanto fosse necessario – in vista della Convenzione del 1948 – evitare di fare riferimento esplicito a un caso particolare. La sua preoccupazione era fondata: sebbene lui partisse dall’analisi del genocidio operato dai nazisti nei confronti del popolo ebraico (e di altri gruppi umani), assumere un caso specifico come paradigma del fenomeno avrebbe compromesso la possibile applicazione della Convenzione ad altri contesti.
Secondo l’autore, il genocidio non si configura dunque come un omicidio di massa ma “significa piuttosto un piano coordinato di azioni diverse che mirano alla distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, con l'obiettivo di annientare il gruppo stesso”… gli obiettivi di questo piano possono essere
“la disintegrazione delle istituzioni sociali e politiche, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione, dell’esistenza economica di un gruppo nazionale, la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche delle vite degli individui che appartengono a tali gruppi”.
Queste “tecniche e metodi” si sviluppano all’interno di differenti “campi” individuati da Lemkin: quello politico, sociale, culturale, economico, biologico, fisico, religioso e morale, a cui il sociologo Martin Crook, molti anni dopo, aggiunge anche il “campo ecologico” in cui si consuma “l’ecocidio”, cioè la distruzione dell’ambiente come strumento necessario e fondamentale per la vita di un popolo. Accanto o in alternativa al genocidio “fisico”, dunque, può prendere forma il genocidio come “forma di pregiudizio del modo di vivere” di un popolo. La visione di Mentana inizia qui a scricchiolare: non conta quanti palestinesi vi siano ancora “tra il Giordano e il mar Mediterraneo”, contano piuttosto le varie modalità attraverso cui il sionismo/Israele/i coloni israeliani rendono insopportabile la vita dei palestinesi.
Lemkin fu particolarmente attento alla questione del “genocidio culturale”, secondo lui fondamentale da far passare in sede di elaborazione della Convenzione. Diversi stati dal passato coloniale (Francia e Gran Bretagna) o formatisi attraverso il colonialismo d’insediamento (Stati Uniti, Australia, Canada) influenzarono il dibattito e rifiutarono l’inserimento del genocidio culturale nella Convenzione, consci delle conseguenze che avrebbero potuto avere con le popolazioni indigene locali. La Convenzione sul genocidio nacque perciò con una sorta di “bias coloniale” che metteva al riparo gli stati che stavano attuando forme di genocidio culturale dopo aver efficacemente portato a compimento l’eliminazione fisica e/o la ghettizzazione in riserve degli indigeni.
La rimozione del caso palestinese deriva anche dalla rimozione, per diversi decenni, del tema del colonialismo/colonialismo d’insediamento nel dibattito sociologico (e anche pubblico) sul genocidio.
Tuttavia, come si è visto prima e come sottolineava lo stesso Lemkin, il genocidio è profondamente legato al colonialismo, al colonialismo d’insediamento in particolar modo. Nella pagina 1 del capitolo sul genocidio di Axis Rule in Occupied Europe, Lemkin sottolinea come il genocidio si attui essenzialmente in due fasi: “la distruzione del modello nazionale del gruppo oppresso e l’imposizione del modello nazionale dell’oppressore… Questa imposizione, a sua volta, si può esercitare sulla popolazione oppressa a cui è permesso di rimanere oppure sul solo territorio dopo la rimozione della popolazione e la colonizzazione dell’area da parte degli oppressori”.
Patrick Wolfe, uno dei grandi teorici del colonialismo d’insediamento, mette in luce proprio il rapporto decisivo tra quest’ultimo e il genocidio. Le società nate dal colonialismo d’insediamento si caratterizzano per quello che chiama “genocidio strutturale”, cioè un processo duraturo fondato sulla “logica dell’eliminazione” degli indigeni attraverso vari metodi (tra cui uccisioni di massa, assimilazioni bio-culturali, tecnologie spaziali), per assicurarsi la loro terra, le loro risorse e talvolta il loro lavoro.
È dunque fondamentale intendere il genocidio come una struttura-processo che mette in primo piano la cultura come concetto chiave, dove la cultura è il collante che tiene insieme il gruppo e ne assicura l’integrità strutturale e, in ultima analisi, il benessere fisico.
L’annientamento culturale (ma anche politico, sociale, economico, ecologico) di un popolo non è meno importante dell’eliminazione fisica per comprendere e soprattutto provare a prevenire un genocidio. Il suo carattere intrinsecamente coloniale dovrebbe perciò far accendere una spia: nei sistemi coloniali è probabile – anche se non sempre certo – che si sia consumato o che sia in corso un genocidio. Come vedremo nella seconda parte di questo lavoro il caso palestinese è paradigmatico.