Azerbaigian, le responsabilità dell’UE

Le violazioni dei diritti umani in Azerbaigian e il ruolo dell’Unione Europea

di Teresa Di Mauro

«Se stai leggendo questo post, vuol dire che sono stata arrestata illegalmente per il mio lavoro giornalistico. Lasciatemi dire che, come i miei colleghi, non ho commesso alcun crimine». Inizia così l’ultimo messaggio pubblicato in libertà da Ulviyya Guliyeva, conosciuta come Ulviyya Ali, giornalista azera, arrestata nella notte tra il 6 e il 7 maggio 2025 dagli agenti del Dipartimento principale di polizia di Baku. La stessa notte anche un altro collega e ricercatore, Ahmad Mammadli, è stato arrestato. Entrambi sono stati brutalmente picchiati, riportandone le conseguenze per diversi giorni. Il 27 agosto è toccato anche al fotogiornalista Ahmed Mukhtar. Con lui salgono a 37 i giornalisti detenuti, circa 25 dei quali fermati dalla fine del 2023. Si tratta del Paese con il più alto numero di incarcerazioni per motivi politici da quando è entrato nel Consiglio d’Europa nel 2001. Mentre Italia ed Unione Europea continuano a stringere accordi con Baku, le violazioni dei diritti umani in Azerbaigian aumentano e centinaia di membri della società civile sono costretti all’esilio o a pene gravissime. 

Gli arresti di Ulviyya Ali e Ahmad Mammadli rientrano nella più recente ondata repressiva del regime di Ilham Aliyev,

iniziata nel 2023 e intensificata dopo la vittoria militare dell’Azerbaigian nel Nagorno-Karabakh, nel settembre dello stesso anno. Una vittoria che ha posto fine all’esistenza della Repubblica de facto e costretto la popolazione armena a un esodo forzato.

«Il governo è diventato paranoico all’idea di essere messo in discussione. L’euforia della vittoria ha rallentato le proteste e non volevano perdere quel consenso»,

spiega a Voice Over Foundation Arzu Geybulla, giornalista azera in esilio.

Gubad Ibadoghlu, economista noto per le sue ricerche sulla trasparenza nel settore del petrolio e del gas e figura di spicco dell’opposizione politica azera è stato tra i primi a essere arrestati con violenza. Nell’estate del 2023 era rientrato in Azerbaigian per far visita alla madre malata, quando la macchina su cui viaggiava con la moglie è stata fermata: entrambi sono stati picchiati e lui successivamente incarcerato. Nello stesso anno, è toccato alla redazione del media indipendente Abzas, mentre nel 2024 ad essere arrestati sono stati i giornalisti di Toplum TV e Meydan TV, media indipendente in esilio. Nello stesso periodo è stato incarcerato anche Bahruz Samadov, dottorando all’Università Charles di Praga e attivista per la pace tra Armenia e Azerbaigian. Così come Gubad, anche Bahruz era tornato per far visita alla nonna, unica parente ancora in vita quando lo hanno arrestato. 

«Non mi aspetto molto di più da ora in poi, dato che è stato represso tutto ciò che era reprimibile».

Nel 2014-2015 hanno arrestato e smantellato le ONG, cioè la società civile organizzata. Nel 2023 è toccato ai gruppi informali e agli ultimi media indipendenti, come Abzas Media. Poi, nel 2024, ai singoli individui», afferma Cesare Figari Barberis, ricercatore al Graduate Institute di Ginevra. «L’Azerbaigian è un’autocrazia: se ritiene di potersi permettere queste azioni senza conseguenze, lo fa», continua Barberis.

Crediti: OC Media

Ulviyya e Ahmad erano tra le ultime voci indipendenti nel Paese. Ulviyya è stata corrispondente per Voice of America fino al febbraio 2025, momento in cui le autorità azere hanno revocato l’accreditamento al media statunitense. Nonostante non avesse più uno spazio dove pubblicare, ha continuato a raccontare le violazioni dei diritti umani e a documentare la repressione contro i suoi colleghi attraverso i social media. «Mi sono assunta l'onere di essere la voce dei media repressi in Azerbaigian. Ho cercato di essere una voce per tutti», ha scritto in una lettera dal carcere pubblicata dal media JamNews.

Il 28 maggio 2025, la redazione di Abzas Media, insieme ai colleghi di Forbidden Stories, ha ricevuto lo Special Award dell’European Press Prize, il premio giornalistico più prestigioso a livello europeo “per aver indagato, fino all’ultimo, sull’abuso di potere del regime di Aliyev, sulla corruzione sistemica, sull’inquinamento ambientale e sulle violazioni dei diritti umani”. Pochi giorni dopo, il 20 giugno 2025, il Tribunale per i Gravi Crimini di Baku li ha condannati a pene comprese tra i 7 e i 9 anni di carcere. Nello stesso periodo, è arrivata la sentenza anche per Bahruz Samadov: 15 anni di prigione con l’accusa di alto tradimento. 

«Le lunghe condanne servono a spaventare», commenta Geybulla, «Soprattutto quando si tratta di persone istruite, capaci di argomentare, di offrire un linguaggio alternativo all’aggressione. Il governo non tollera chi sa articolare il dissenso in modo efficace».

Dall’annuncio della sentenza, Samadov ha tentato già due volte di togliersi la vita  mentre il direttore di Abzas media, Ulvi Hasanli, ha perso oltre 15 chili durante 17 giorni di sciopero della fame per chiedere che i suoi diritti base venissero rispettati. 

Secondo i dati pubblicati da Meydan TV, sono circa 375 i prigionieri politici in Azerbaigian. Ma cosa ha permesso al regime di fortificarsi e portare avanti questa ulteriore escalation repressiva?

L’Azerbaigian è considerato un petrostate, ossia un Paese il cui sviluppo economico e potere politico dipendono quasi interamente dalle esportazioni di petrolio e gas.

Secondo i dati riportati dal think thank Ecco Climate in un report pubblicato nel 2024, i combustibili fossili costituiscono oltre il 90% delle esportazioni totali dell'Azerbaijan, il 60% delle entrate statali e circa il 35% del PIL. Più della metà di queste esportazioni è destinata ai Paesi dell’Unione Europea, con l’Italia al primo posto tra gli acquirenti, nonostante il calo della domanda di gas e gli impegni assunti con l’Accordo di Parigi.

Secondo l’economista Gubad Ibadoghlu, questo afflusso di risorse ha permesso al regime di Ilham Aliyev di rafforzarsi e consolidarsi, smantellando i media indipendenti, reprimendo la società civile, limitando l’indipendenza della magistratura e cercando al contempo legittimazione internazionale per consolidare il proprio potere. «Quando gli attori internazionali ignorano o tollerano questi abusi, diventano complici nel perpetuare pratiche autoritarie e minano i principi della democrazia», scrive Ibadoghlu, oggi agli arresti domiciliari in condizioni di salute critiche.

Dr. Gubad Ibadoghlu, difensore dei diritti umani.

Mentre Unione Europea e Italia continuano ad ignorare sistematicamente le violazioni dei diritti e stringere accordi con Baku per aumentare l’import di gas, è la popolazione azera a pagare il prezzo di queste scelte. 

«Il governo sta cercando di aumentare l’export di gas riducendo i consumi interni, fino al punto da considerare l’ipotesi di far pagare il gas anche alle famiglie che non lo utilizzano», denuncia la giornalista Geybulla «Stanno garantendo le forniture esterne a spese di cittadini che non hanno accesso a servizi essenziali come sanità o istruzione. I giornalisti vengono imprigionati, la società civile è stata annientata. E intanto, l’Europa, si accontenta di restare al caldo in inverno, senza chiedersi quale sia il prezzo».

Ma l’interesse dell’Unione Europea in Azerbaigian va oltre il settore fossile. Secondo l’analisi di Crude Accountability, ONG statunitense che si occupa di giustizia ambientale e sociale nelle regioni del Mar Caspio e del Mar Nero,  l’UE—insieme alla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERD), di cui è partner principale—è tra i maggiori investitori del Middle Corridor, un’infrastruttura a guida occidentale che mira a collegare l’Asia centrale, il Caucaso e l’Europa attraverso una rete di porti, ferrovie, oleodotti e strade per il trasporto di merci e materie rare, tra le altre. Il corridoio si propone come alternativa alle rotte tradizionali che passano per la Russia o l’Iran. In questo schema, l’Azerbaigian gioca un ruolo strategico anche come ponte geografico e logistico indispensabile: collega l’Asia centrale (Kazakhstan, Turkmenistan, Uzbekistan) al Mar Nero e alla Turchia verso l’Europa e apre una via commerciale tra Cina e Unione Europea che aggira del tutto Mosca. 

Questi accordi hanno ripercussioni dirette anche sulla politica estera dell’Unione e sulla sua capacità di reagire alle violazioni del diritto internazionale. «Per lavoro, mi è capitato di porre domande sul ruolo dell’Italia in sede UE», racconta il ricercatore Barberis. «Mi è stato detto apertamente che, qualora l’Azerbaigian invadesse l’Armenia del Sud, si aprirebbero discussioni interne su eventuali sanzioni. Ma per approvarle serve l’unanimità. E Italia, Bulgaria e Ungheria porrebbero il veto».

Nonostante l’UE conosca bene la natura autoritaria del regime azero, le sue istituzioni continuano a considerare l’Azerbaigian un partner strategico.

Arzu Geybulla, giornalista e scrittrice azera

«Dicono che mantenere Baku all’interno del Consiglio d’Europa (PACE) sia l’unico modo per tenere aperto un canale di dialogo. Ma la situazione dei diritti è peggiorata proprio mentre l’Azerbaigian ne faceva parte. Se quel canale era così importante, perché non è mai stato usato per esercitare una vera pressione?»

si chiede Geybulla.

Secondo Barberis, «l’Europa sta perdendo credibilità sia con il proprio pubblico sia verso l’esterno. Ma fatica a rendersene conto. Sta smantellando dall’interno la propria immagine di garante dei diritti».

Eppure, Geybulla crede che si possa fare ancora qualcosa. «L’Italia e altri Paesi europei possono sostenere la società civile azera, anche se oggi vive perlopiù in esilio», sostiene la giornalista, «Possono coprire le spese legali dei prigionieri politici, supportare i media indipendenti all’estero — che sono gli unici rimasti a raccontare — e fare pressione sugli altri Stati membri affinché ogni nuovo accordo con il governo azero preveda un vero meccanismo di controllo.

Ogni singolo euro dei contribuenti europei che finisce nelle mani del regime dovrebbe essere tracciato e condizionato al rispetto dei diritti umani».

In un momento in cui i diritti umani vengono sistematicamente calpestati, in cui il genocidio della popolazione palestinese si consuma sotto i nostri occhi e l’impunità sembra prevalere, secondo Arzu Geybulla «dovrebbe esistere ancora uno spazio per l’umanità. E la responsabilità di reagire spetta a chi ha preservato ancora un minimo di coscienza».


Leggi anche

Avanti
Avanti

Lettere di Anan Yaeesh/2