La celebrazione di Mamdani
L’ipocrisia della sinistra italiana
di Dalia Ismail
Mentre i partiti progressisti italiani salutavano con entusiasmo la vittoria di un giovane musulmano apertamente solidale con la Palestina dall’altra parte dell’Atlantico, in Italia diverse persone di seconda generazione raccontano un senso di esclusione e disillusione nei confronti di quegli stessi partiti.
L’immagine di Zohran Mamdani, il nuovo sindaco di New York celebrato dal Partito Democratico (PD) e da Alleanza Verdi Sinistra (AVS) come simbolo di rinnovamento e inclusione, coesiste con un dato contraddittorio: nel 2025, in Italia, oltre un milione di persone nate e/o cresciute nel Paese non possiedono ancora la cittadinanza italiana.
Una di loro - che per motivi di sicurezza preferisce restare anonima - ha più di trent’anni, e ha partecipato attivamente alla campagna per il referendum dell’8 e 9 giugno sulla riforma della cittadinanza. A Voice Over racconta la sua delusione per l’atteggiamento dei partiti e di molte associazioni: “Nel comitato - il Comitato nazionale promotore del referendum sulla cittadinanza - sono entrate ben poche associazioni e pochissimi partiti. Molti si sono aggiunti solo all’ultimo, come il PD, a maggio, con 5.000 euro - o per nulla - e comunque contribuendo con pochissimi fondi.
Il messaggio trapelato è stato chiaro: la riforma della cittadinanza non è un tema che ci unisce. La CGIL non ha aderito al nostro comitato nazionale”.
Pubblicamente, il PD ha iniziato a sostenere il referendum dal mese di aprile. Secondo la testimone, il referendum, pur avendo raccolto le firme in tempi record, è stato “il più povero della storia d’Italia”, e questo riflette, spiega, “il fatto stesso di non crederci, di pensare che questa modifica sia chiedere troppo agli italiani” e di “non collegare il tema del lavoro alla cittadinanza”.
Una richiesta di replica inviata a un esponente del PD nazionale non ha ricevuto risposta. Ha però parlato con Voice Over Alessandro Corti Nan, consigliere del PD nel Municipio 7 di Milano, che ha riconosciuto la necessità di maggiore chiarezza interna: “Non so se quanto affermato sia vero o meno. Sarebbe opportuno avere qualche chiarimento dal Nazareno su questa faccenda, che di sicuro merita una risposta chiara e onesta. Il problema del partito nel prendere decisioni rapide su questo e altri temi si è visto più di una volta. Spesso l’immobilismo nasce dal fatto che ci sono tante anime con sensibilità diverse su molte, forse troppe questioni. Penso ovviamente che questa fosse un’iniziativa da supportare dal giorno zero, anzi dal giorno -1.”
Dopo l’esito negativo del referendum, l'associazione Italiani senza cittadinanza ha esplicitato sui social di non aver avuto sostegno dai grandi partiti: “Abbiamo fatto politica dal basso, senza grandi partiti, senza finanziamenti adeguati, senza accesso equo ai media tradizionali”.
Hadil Tarhouni, studentessa italo-tunisina e attivista di Italiani Senza Cittadinanza, ha fatto diversi esempi a Voice Over di ciò che lei definisce
“la crisi di rappresentanza e l'ipocrisia politica della sinistra italiana, che impedisce l'inclusione autentica e la valorizzazione dell'elettorato proveniente dalle comunità arabe e musulmane e da altre minoranze”.
Ha citato le posizioni prese sul genocidio dei palestinesi, sulle politiche di gestione della crisi migratoria, e anche sulla legge della cittadinanza.
“Lo Ius Soli Temperato, uno dei tentativi più significativi di riforma, si è arenato in Senato nel 2017 durante un governo sotto la guida del PD. Io non mi scordo che, pur avendo i numeri e la responsabilità di governo,
la sinistra italiana non ha voluto dare la priorità assoluta a questa riforma, probabilmente per paura di perdere consenso elettorale”,
ha detto Tarhouni.
Tarhouni ha anche raccontato della sua partecipazione ad un evento per la promozione del referendum, organizzato dalle sezioni regionali dei partiti progressisti nelle Marche. “La presentatrice Cora Fattori, esponente di +Europa Marche, mi ha chiesto come pronunciare il mio nome e le ho detto anche quale associazione rappresentavo. Sul palco però mi ha presentata storpiando il nome e non ha mai nominato Italiani senza cittadinanza. L'impressione è che prima parlano gli esperti e i politici, poi parla una storia emozionale, così sembra che veniamo ascoltati”.
La lotta per la rappresentanza politica
Antonella Bundu, ex consigliera comunale di Firenze - di madre italiana e padre sierraleonese - si è candidata nel 2019 alle elezioni municipali di Firenze diventando la prima donna nera a candidarsi come sindaca in una grande città italiana. Durante la scorsa consigliatura, sotto un’amministrazione a guida PD, ha vissuto in prima persona le contraddizioni di un centrosinistra che, a parole, promuove l’inclusione ma nei fatti continua a erigere barriere.
“Nonostante i proclami di voler riconoscere i diritti di tutti i cittadini, compresi quelli che sono italiani senza cittadinanza, molti atti concreti sono stati bocciati,”
racconta Bundu. “Il Comune di Firenze, per esempio, ha promosso cittadinanze onorarie simboliche per chi è nato sul territorio, ma ha respinto diverse proposte che miravano a rimuovere ostacoli reali per chi non ha la cittadinanza. L’atto contro la discriminazione negli affitti, per esempio, è stato bocciato”.
Tra gli episodi che cita, c’è anche quello relativo alla memoria storica della città: “Abbiamo chiesto più volte di intitolare una strada ad Alessandro Sinigaglia, partigiano nero e comunista, medaglia d’argento per la Resistenza e tra i fondatori dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica).
Durante la discussione in Consiglio ci è stato detto più volte di non stressare sul fatto che fosse nero. E ancora oggi, a Firenze, non gli è stata dedicata una via”.
Bundu sottolinea che nonostante la presenza di persone razzializzate sul territorio italiano, manca la loro rappresentanza nelle istituzioni.
“A Firenze il 15/16% della popolazione è di origine straniera e risiede regolarmente sul territorio, ma questa realtà non si riflette nei luoghi di rappresentanza. Avevamo proposto una risoluzione per estendere il diritto di voto locale - per le elezioni amministrative e referendum - anche alle persone extracomunitarie residenti, come già avviene in alcuni Paesi europei. Se sei francese e vivi a Firenze puoi votare per il sindaco di Firenze; se sei extracomunitario e lavori regolarmente, paghi le tasse e mandi i tuoi figli a scuola nella città, no. La nostra proposta è stata bocciata”.
Omar Korichi, praticante avvocato italo-marocchino, è consigliere comunale di Rovereto dal 2020. Nel 2023 è stato espulso dal suo partito per il suo sostegno alla resistenza palestinese. Ha detto a Voice Over che “gli immigrati vengono spesso strumentalizzati da entrambi gli schieramenti politici”. “Se la destra usa gli immigrati come capro espiatorio, la sinistra tende a farne oggetti di pietismo, funzionali a costruirsi una coscienza morale di facciata o a colorare di multiculturalismo la propria immagine pubblica.
Concetti come integrazione e cittadinanza vengono ripetuti come slogan, ma restano retorica politica”,
ha continuato.
Korichi descrive un sistema in cui i partiti “coinvolgono i candidati di origine straniera solo all’ultimo momento, a ridosso delle elezioni, come strumento per raccogliere voti, senza offrire spazi reali di confronto”. “Quando mi proposero di candidarmi in una lista civica di sinistra - composta da ex membri del PD - mi dissero che avevano bisogno di qualcuno che rappresentasse la comunità musulmana e marocchina. Tutto molto nobile, se non fosse stato solo retorica politica”. Una volta eletto consigliere comunale, Korichi spiega che, nonostante fosse stato il secondo più votato della lista, gli è stata affidata “una delega senza portafoglio alla promozione delle reti culturali”, e un incarico non coerente con la sua formazione.
“Avevo chiesto una delega per competenza, essendo io laureato in giurisprudenza con una tesi in diritto tributario, non per provenienza culturale.
Ma il messaggio era chiaro: servivo per rappresentare la diversità, non per contribuire davvero alle decisioni”.
Durante il mandato, Korichi ha proposto di istituire una Commissione degli immigrati sul modello di Padova, come strumento di partecipazione civica. “La mia proposta è stata cassata con la motivazione che ‘non rientrava tra le priorità della città’. In quel momento mi sono sentito profondamente usato”.
Uno degli episodi più emblematici riguarda la sua opposizione a una mozione per concedere la cittadinanza onoraria ai ragazzi e alle ragazze nati in Italia. “Mi sono rifiutato di sostenerla, perché era solo un’altra strumentalizzazione. La cittadinanza onoraria si dà a chi si distingue per meriti speciali, non a chi dovrebbe averla di diritto. Dopo quella discussione, il dirigente mi ha escluso per mesi dalla chat del gruppo politico”. Dopo sei mesi di isolamento, è stato ricontattato soltanto alla vigilia di due campagne elettorali diverse:“Mi chiamavano per chiedermi di convincere la mia comunità a votare PD. Ho risposto, con tono provocatorio, che mi sarei tagliato la mano piuttosto che sostenere chi ci ha sempre usato”.
“Usano le nostre lotte per lavarsi la coscienza sporca e continuare a definirsi “di sinistra”
I partiti dell’opposizione italiana hanno avuto una retorica cauta e calcolata quando si trattava di prendere posizioni e provvedimenti contro Israele. Il 7 giugno 2025, hanno organizzato la loro prima manifestazione nazionale “per Gaza”, a cui le varie associazioni della comunità palestinese, come per esempio l’Associazione dei Palestinesi in Italia (API), non hanno aderito per la mancanza di presa di posizione su questioni cruciali come l’assedio di Gaza, le colonie illegali in Cisgiordania, la Nakba, la liberazione dei prigionieri politici palestinesi e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, nonché per l’amplificazione di fake news come quella degli stupri di massa del 7 ottobre 2023, smentita più volte da organi indipendenti.
Mariam Ahmad, studentessa ed attivista italo-palestinese, ha detto a Voice Over:
“da sempre noi palestinesi abbiamo dovuto imporci per far riconoscere la nostra voce e ottenere spazio nello scenario politico italiano. La sinistra di oggi non è più quella storica, che rappresentava un’opposizione reale:
oggi si definisce “progressista”, ma è solo il riflesso del proprio privilegio e delle proprie narrative comode.
Gli stessi partiti che hanno stretto mani a governi complici di genocidio e difeso il “diritto di Israele a esistere” mentre Gaza veniva distrutta, oggi usano la causa palestinese come ornamento politico per sembrare dalla parte giusta della storia.
A noi non servono persone che si emozionano con la teoria e poi demonizzano le pratiche di lotta.
Fa rabbia vedere leader della sinistra italiana definire “terroristi” i palestinesi, mentre lottano per la loro libertà. Noi parliamo di decolonizzazione da sempre, come pratica viva di liberazione delle menti e dei corpi - nelle piazze, nelle università, nelle assemblee.
Ed è per questo che oggi mi disgusta vedere la sinistra italiana esaltarsi per la vittoria di Mamdani a New York. Applaudono lui perché è lontano, perché è “sicuro”; ma se le sue parole diventassero scomode, sarebbero i primi a prenderne le distanze. Vogliamo che smettano di usare le nostre lotte per lavarsi la coscienza sporca e continuare a definirsi “di sinistra” mentre restano complici del colonialismo e del genocidio in Palestina”.
Laila Sit Aboha, italo-palestinese, è una ricercatrice alla Scuola Normale Superiore di Pisa ed un’esperta di dinamiche generazionali nella diaspora palestinese. Ha fatto per Voice Over un ragionamento sul razzismo e il colonialismo che plasmano il centro-sinistra italiano. “Quando queste cose accadono lontano da noi, le figure che si definiscono progressiste in Italia riescono a sostenerle senza problemi. Ma quando la critica arriva dall’interno - dalle comunità razzializzate italiane, come quella palestinese - rispetto alla loro ipocrisia politica, reagiscono con violenza: silenziando, ignorando, cancellando le nostre rivendicazioni”, afferma Sit Aboha.
“Credo che alla base ci sia una questione coloniale irrisolta. Il sionismo mette in discussione la tenuta dell’Occidente, delle sue istituzioni e della sua stessa idea di “cultura”.
I palestinesi, in questo immaginario, devono corrispondere al modello del “buon selvaggio”: quello che resta in silenzio, abbassa la testa e ripete ciò che la sinistra italiana vuole sentirsi dire.
Oppure devono incarnare la figura della “vittima perfetta”, priva di voce, di agency e di analisi politica collettiva. Non è un caso che i palestinesi ammessi nei dibattiti di questi partiti siano quasi sempre soggetti slegati da organizzazioni politiche,
proprio perché un’analisi palestinese strutturata e collettiva mette in crisi questo equilibrio”, spiega Sit Aboha.
La ricercatrice conclude poi che la comunità palestinese è vista con una lente “razzista ed orientalista”. Questo permette di mettere in pratica un trattamento “come se noi non avessimo gli strumenti politici per poter parlare della nostra situazione. Per loro noi ci dobbiamo appellare a quello che l’Occidente ha prodotto su di noi, o al massimo con il paradigma dei diritti umani e del diritto internazionale. Parlare di colonialismo d’insediamento e di resistenza palestinese è completamente inaccettabile all’orecchio italiano, perché fa crollare il castello di carta delle istituzioni a cui si appellano”.
Silvia Pegah Scaglione, artista e attivista italo-iraniana, riferendosi all’atteggiamento dei partiti progressisti italiani durante il genocidio in Palestina e la guerra israeliana-statunitense all’Iran, ha detto a Voice Over: “Durante la guerra ho avuto la netta impressione che molte persone abbiano un pregiudizio così radicato da preferire un governo genocida che bombarda, piuttosto che schierarsi con un popolo sotto attacco. La retorica del velo sembra avere più presa della semplice logica: gettare bombe sulla testa delle persone non è un modo per liberarle dal velo. È come se ci fosse un errore di sistema, un bug morale che impedisce di stabilire una scala delle priorità, come se fosse meglio morire che vivere con il velo”.
“Esistiamo nella sfera politica solo in quanto token”
“L’ipocrisia della sinistra italiana è ormai sotto gli occhi di tutti", afferma Sara Tanveer, giornalista italo-pakistana.
“Quella stessa sinistra che oggi esalta un uomo musulmano, socialista e femminista come nuovo sindaco di New York, ha sempre rifiutato la nostra presenza e la nostra capacità di conflitto. Noi, soggettività politiche e razzializzate, esistiamo nella sfera pubblica solo come token. E i token, si sa, quando non servono più vengono dimenticati”.
Tanveer racconta di aver provato a fare politica locale prima di dedicarsi al giornalismo: si era iscritta giovanissima a un partito di sinistra, convinta che bastasse “esserci” per cambiare le cose. “Mi sbagliavo,” dice oggi. “Non manca la nostra voce: manca il loro interesse a vederci come soggetti politici.” Oggi, prosegue, rifiuta “compagni e compagne” che considerano le persone razzializzate “solo strumenti da esibire nelle campagne elettorali o nei collettivi”. “Questa sinistra ci ha deumanizzato e ha avallato posizioni islamofobiche ogni volta che non rientravamo nei loro standard di cittadini modello”.
Per Tanveer, il doppio standard è evidente:
“Gli stessi che hanno firmato i decreti Minniti-Orlando, finanziato i lager in Libia, potenziato i CPR e affossato la riforma della cittadinanza, oggi celebrano il ‘migrante che ce l’ha fatta in America’. È ridicolo”.
Anche la scrittrice Laetitia Leunkeu, italo-camerunense, riconosce gli stessi problemi. “Le persone di sinistra italiane - soprattutto bianche - acclamano le conquiste d’oltreoceano, ma faticano a guardare a ciò che accade qui”. Il suo primo articolo è nato all’indomani dell’omicidio di George Floyd, quando in Italia si sono moltiplicate le manifestazioni ispirate al movimento Black Lives Matter. “Molti si sono mobilitati contro il razzismo americano, ma non volevano ammettere quello italiano. Mi dicevano. Non è la stessa cosa, qui è diverso’.”
Da allora, spiega, ha osservato come l’interesse per il razzismo emerga solo quando qualcosa accade lontano, per poi spegnersi rapidamente, quando la priorità dei media diventa un’altra.
“Nel mondo dei media e della cultura, il tokenismo è la regola. Finché la persona nera parla della propria sofferenza viene invitata ovunque; se prova a parlare d’altro, sparisce. È come se il nostro ruolo fosse insegnare agli italiani l’ABC del razzismo, senza però spingere a cambiare le cose politicamente”.
Il giornalista Adil Mauro, italo-somalo, ricorda invece il 2020 come un’illusione collettiva: “Dopo l’omicidio di George Floyd sembrava che tutto fosse possibile. Media e partiti scoprivano il razzismo sistemico, molti di noi ebbero la possibilità di scrivere ed essere interpellati. Ma quella visibilità non era nostra, era concessa dall’alto, temporanea. Una porta che si apre per un tempo limitato, poi si richiude”.
Per Mauro, il meccanismo si ripete ogni volta che emerge una figura come Mamdani: “L’Italia osserva e celebra questi esempi come se fossero miracoli, mentre qui le persone con background migratorio restano eccezioni. Da destra siamo attaccati, da sinistra esibiti come simboli di un’Italia “diversa”. Ma se la visibilità non diventa opportunità concreta, resta un’altra forma di esclusione”.
La scrittrice Fatima Bouhtouch, italo-marocchina, riflette sul disincanto riguardo a questo scenario. “Per molto tempo ho confuso l’essere ascoltata con l’essere accolta. Credevo che bastasse la passione e l’autenticità per cambiare le cose. Invece mi sono ritrovata a fare da eco a un discorso già scritto, utile solo a legittimare una facciata di inclusione. Non ero parte del cambiamento, ma della narrazione del cambiamento”.
Oggi, dice, non crede più “nella purezza dei partiti” né “nelle campagne di facciata”:
“Mi ferisce vedere una sinistra che elogia figure internazionali come Mamdani, ma qui continua a escludere o zittire chi porta esperienze vissute e sguardi complessi.
È un paradosso crudele: si celebra la diversità lontana mentre si marginalizza quella vicina”.
Marianna Kalonda Okassaka, social media manager e divulgatrice italo-congolese, racconta di essere stata invitata a una festa internazionale del partito dei Verdi europei. “C’era un panel con molte persone razzializzate, un approccio completamente diverso da quello dei Verdi italiani. Mi sono trovata bene: ho incontrato persone consapevoli, che conoscono il peso delle parole e la complessità dei temi di cui parlano”.
Secondo Okassaka, la vera differenza sta nella rinuncia all’establishment. “Mamdani ha vinto perché ha rifiutato i grandi finanziamenti e i poteri forti. I nostri partiti, invece, continuano a strizzare l’occhio all’establishment, e questo li rende incapaci di prendere posizioni realmente progressiste”.
A suo avviso, anche la struttura interna dei partiti italiani contribuisce all’immobilismo. “Ci sono troppe correnti, troppi equilibri da mantenere. Nel PD, ad esempio, convivono anime molto diverse, anche esponenti dichiaratamente filoisraeliani, che di fatto impediscono di costruire un’agenda coerente sui diritti e sulla giustizia”.
Per Okassaka, la soluzione non è creare nuovi simboli, ma nuovi spazi politici autonomi, capaci di sottrarsi alle logiche del potere economico, un modello di partecipazione che parta dalle comunità.
Arrivati a questo punto, il desiderio comune non è più quello di chiedere spazio nei partiti esistenti, ma di immaginare un’altra idea di politica: una che parta dalle comunità, riconosca le differenze come competenza e complessità, non come simbolo, e smetta di considerare la diversità un favore concesso dall’alto, ma un’occasione per confrontarsi, una volta per tutte, con le istanze più scomode.