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valeria fonte
Maggio 19, 2025
Giustizia Sociale

Violenza patriarcale: la moltitudine delle lotte per convergere in un’unica, immensa rivoluzione

Approfondimento di Camilla Ponti

Le origini della cultura dello stupro possono essere riscontrare nella genesi stessa della società umana. Lo psicologo italiano Roberto Sicuteri, all’interno del saggio “Lilith e la luna nera”, ripercorre la mitologia della figura di Lilith, prima moglie di Adamo e come lui nata dalla terra, nelle più antiche versioni bibliche, nella tradizione sumerica-accadica, nella tradizione egizia, nel Medioevo e nella cultura occidentale contemporanea. Lilith è divenuta un simbolo fondamentale della lotta contro la cultura dello stupro in quanto, secondo varie scritture, fu la prima donna ad opporsi al dominio maschile - sessuale e di ruolo - e ad essere punita tramite l’esilio e la dannazione eterna. Lilith è la radice della ribellione al patriarcato, della dissidenza femminile, della stregoneria. 

“L'amore di Adamo per Lilith, dunque, è presto turbato; quando essi si congiungevano nella carne [...] Lilith mostrava insofferenza. Così domandava ad Adamo: [...]: -Perché essere soverchiata da te? Eppure anch'io sono stata fatta di polvere e quindi sono tua uguale-. Ella chiede cioè di invertire le posizioni sessuali per stabilire una parità, un'armonia che deve significare l'uguaglianza fra i due corpi e le due anime. [...] Adamo risponde con un rifiuto netto: Lilith è a lui assoggettata, ella deve stare simbolicamente sotto di lui, subire il suo corpo. Dunque: c'è un imperativo, un ordine che non è lecito trasgredire. La donna non accetta questa imposizione e si ribella ad Adamo”. (Sicuteri, 1980, pp: 29-31)

Joumana Haddad, scrittrice, poetessa, giornalista e attivista libanese, nel suo libro “” scrive: “.” ().

In Occidente, la discussione rispetto alla cultura dello stupro entra a far parte dello scenario collettivo a partire dagli anni 60 del 900’, durante la seconda ondata del movimento femminista statunitense. Mentre la prima ondata femminista si era concentrata sulla parità di diritti, come quello di voto, tra persone socializzate come uomini e persone socializzate come donne, questa seconda fase del movimento ha messo al centro il corpo, il diritto all’aborto, il diritto ad una sessualità femminile libera e sicura. All’interno di questa cornice, il tema della violenza maschile - e di come contrastarla - inizia ad essere prioritario. Tuttavia, la seconda ondata femminista occidentale è stata caratterizzata da una visione binaria transescludente delle soggettività e del genere, e si è focalizzata sull’esperienza di persone socializzate come donne bianche, eterosessuali, cisgender e borghesi. Grazie ai moti di Stonewall del 1969 e alla formazione di movimenti quali Black Power e Black Panthers, durante gli anni 90 si è creata la terza ondata femminista, che ha messo al centro il concetto di intersezionalità. Nel 1989, la giurista e attivista Kimberlé Crenshaw ha coniato questo termine con l’intento di sottolineare l’esistenza di innumerevoli identità sociali, alle quali sono legate altrettante possibili oppressioni. È diventato dunque imprescindibile l’analisi di come la violenza maschile etero-cis impatti l’esistenza non solo della donna bianca borghese, ma anche delle persone socializzate come donne queer, razzializzate, sex workers, lavoratrici, disabili, tossicodipententi o con sofferenza psichiatrica.

Le scrittrici Pamela Fletcher, Emilie Buchwald e Martha Roth, all’interno del loro libro Trasforming a Rape Culture del 1993, hanno dato una delle prime definizioni di cultura dello stupro: “è un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale è “un fatto della vita”, inevitabile come la morte o le tasse”.

Se la violenza non è una prerogativa dell’uomo etero-cis, in quanto può esistere in qualsiasi rapporto e situazione, la violenza di genere è una caratteristica ineluttabile dell’esistenza delle persone socializzate come donne. Tuttavia, la cultura dello stupro moderna non colpisce soltanto loro; essa mira a sopprimere, invisibilizzare ed escludere chiunque non rientri nella categoria di uomo etero-cis. Infatti, tra i suoi principi fondanti non sono solo presenti tutte le varie forme di violenza di genere e di esercizio del dominio maschile nei confronti delle donne, ma anche l’eteronormatività, l’amatonormatività, l’imposizione del binarismo di genere e la cancellazione e/o psichiatrizzazione delle persone trans e non binarie. Secondo i dati mondiali del Trans Murder Monitoring, un progetto di ricerca del Trans Europe and Central Asia che si occupa di tracciare le uccisioni di persone trans e gender diverse, tra il primo ottobre 2023 e il 30 settembre 2024, a livello mondiale, sono state ammazzate 350 persone trans e gender diverse. Tra queste, il 94% erano donne o socializzate come tali, il 93% era razzializzata e, tra le persone di cui si conosceva l’occupazione professionale, il 46% lavorava come sex worker. L’ultimo agghiacciante transfemminicidio è avvenuto in Colombia ad inizio aprile: Sara Millerey González Borja, dopo essere stata massacrata di botte, è stata buttata in un burrone e lasciata agonizzare fino alla morte. La transfobia è parte integrante della cultura dello stupro odierna, così come la maggiore ipersessualizzazione delle persone socializzate come donne razzializzate e la stigmatizzazione del sex work. Inoltre, lo stesso uomo etero-cis subisce, spesso in maniera inconsapevole, le catene imposte dalla cultura dello sturpo. Lamascolinità tossica e il machismo, che hanno lo scopo, tra i tanti, di sopprimere qualsiasi tipo di emotività e complessità identitaria maschile etero-cis, ne sono valori primari. 

La cultura è una moltitudine infinita di norme, valori, tradizioni, credenze e costumi a cui veniamo espostɜ fin dalla gestazione, e che apprendiamo tramite il semplice fatto di esistere all’interno di un determinato contesto sociopolitico e storico. Se a livello microscopico la cultura dominante viene riprodotta nell’ambito familiare e sociale primario, a livello macroscopico è sostenuta dalle istituzioni, dai mass media, dall’arte. 

Per fare un esempio concreto, in Italia il giornalismo svolge un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’egemonia della cultura dello stupro. Secondo Valeria Fonte, scrittrice, linguista e attivista, intervistata da Voice Over Foundation: “Affinché un fenomeno esista, ha bisogno di essere raccontato. Raccontare un fatto significa renderlo reale: tutto ciò che non viene narrato, di fatto, rimane invisibile agli occhi e alle coscienze. Prima, di violenza di genere non se ne parlava. Ora se ne parla, e se ne parla sempre di più. Il punto è: come? Non basta solo raccontare una storia per renderla reale, serve anche raccontarla in modo oggettivo e ragionato per non mistificarla. Ad oggi, come riusciamo a contrastare le narrazioni distopiche dei media? Col nostro nuovo strumento di massa: i social network. Prodotto di certo censurato e compromesso, ha però dato alle persone l'opportunità di fare informazione (o disinformazione) in modo veloce ed efficace, con una copertura mediatica mostruosamente grande. C'è un bias cognitivo importante quando parliamo di media e di informazione: abbiamo dato ai giornali e alla televisione il ruolo ufficiale di fonte attendibile. Eppure, come i social network, sono strumenti di informazione e di disinformazione in modo incredibilmente equiparabile. Solo che, nel caso dei social, siamo prontɜ a mettere in discussione il dato in oggetto. Succede più raramente, invece, con i sistemi informativi classici. Ecco perché ha ancora senso occuparsi di quella che ho chiamato "violenza giornalistica di genere": se una fetta ampia di popolazione crede nell'infallibilità di certi canali, allora è nostro dovere aggiustare il tiro. I giornali mangiano sulla pornografia del dolore. Con "pornografia del dolore" intendiamo la tendenza a cogliere e ad esasperare le lacrime, il dolore, le ultime dichiarazioni scottanti di fronte a una molestia, a uno stupro, a un femminicidio. Tale sistema si priva di indagare le cause, le conseguenze e le soluzioni della violenza di genere, ma di volta in volta ne racconta le vicende private, come fossero una sfortuna individuale. L'inefficienza del giornalismo si esplicita, per me, in due sezioni: come racconta la parte lesa e come racconta la parte che offende. Nel primo caso, a seconda della vittima, si crea un'immagine di santa o di puttana che ne possa delineare i tratti. Più eri santa, più eri incinta, più avevi l'aria da casta, più ci mancherai, donna! Successivamente, si va a scavare nei suoi messaggi privati e nei suoi ultimi spostamenti. C'è, addirittura, la brutta tendenza a condividere gli audio privati delle compagne uccise per creare un'ondata di interazioni (e di like, diciamocelo). Della "lei di turno" si sessualizza tutto: l’estetica, i desideri stroncati, le abitudini. Ogni cosa diventa sessualmente eccitante. Di lui, invece, si racconterà, a seconda del soggetto, che era un bravissimo ragazzo o un mostro. Nessuna delle due versioni è esaustiva, tanto meno corrispondente alla realtà. Di fatto, è irrilevante il personale di fronte a un sistema culturale che forgia tutti gli uomini nella mentalità del controllo e del possesso. Al giornalismo attuale manca ciò che fa del giornalismo uno strumento di lettura del mondo: l'etica. L'etica riconosce il lecito e l'illecito, sa come non maciullare gli organi di chi sta già soffrendo, sa disinnescare lo sciacallaggio e sa costruire dinamiche di educazione di massa. Non è forse questo lo scopo di un giornalismo sano e ragionato? Studiare i buchi di questa realtà per trovare soluzioni precise e rivoluzionarie. Non ho mai creduto al ruolo descrittivo di tale mestiere. Descrivere, senza prendere posizione, è essere ignavi e complici.”

Grazie anche alla diffusione del principio di intersezionalità e della teoria queer, nel 2010 si è venuta a creare la quarta ondata femminista, definita transfemminista. Una delle sue correnti principali, nata dalle lotte di militanti come Angela Davis, è quella abolizionista. L’abolizionismo moderno è orientato alla decostruzione e alla dissoluzione di tutte le forme di detenzione e, contemporaneamente, si impegna nella creazione di una collettività basata sulla giustizia sociale, sull’anticapitalismo e su un’educazione sessuo/affettiva transfemminista. All’interno del (dei) transfemminismo(i) abolizionista(i), ha assunto sempre più importanza la teorizzazione di quella che viene chiamata violenza patriarcale. Provando ad immaginare una matrioska, la violenza di genere è contenuta nella cultura dello stupro, in quanto è una delle sue massime espressioni; a sua volta, la cultura dello stupro è uno dei capisaldi del patriarcato. Tuttavia, il patriarcato occidentale di oggi non prevede soltanto l’eterosessismo e la cultura dello stupro. Esso, tra le sue basi fondanti, prevede: il capitalismo, ilsuprematismo bianco, il colonialismo, il complesso economico/penitenziario, l’islamofobia, lo specismo. Il concetto di violenza patriarcale mira ad ampliare i confini della violenza di genere, che riguarda solamente le persone socializzate come donne, a tutte quelle forme di dominio e di controllo dei corpi, delle soggettività e di soppressione dell’autodeterminazione, personale e collettiva. Dunque, all’interno della violenza patriarcale sono comprese la violenza dei confini e delle frontiere, l’incarcerazione nelle prigioni e nei centri di detenzione per persone migranti, la violenza coloniale, lo sfruttamento lavorativo, la violenza psichiatrica e medica, ma anche la violenza verso tutti gli animali non umani e la distruzione delle terre. Questa (ri)teorizzazione della violenza patriarcale serve a trasmettere un messaggio universale: la matrice dell’oppressione è una sola e, per sconfiggerla, la moltitudine delle lotte deve convergere in un’unica, immensa rivoluzione. 

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