Maggio 14, 2025
Giustizia Climatica
Terre e migrazioni: la lotta per la giustizia ambientale deve muoversi insieme alla critica al sistema coloniale-capitalista
Approfondimento di Martina Cangialosi
Il nuovo report dell’Associazione A Sud “Migrazioni ambientali e crisi climatica” allarga lo sguardo sulla migrazione contemporanea e mostra come i fattori climatico-ambientali rivestono un ruolo significativo nella scelta di migrare. Dall’esperienza di 348 persone migranti, emerge che, a fronte di eventi atmosferici sempre più estremi e di disastri naturali, la causa climatica-ambientale assume rilevanza sulla decisione di abbandonare il Paese d’origine. Quando si parla di migrazioni climatiche e ambientali, però, “arrivare a delle conclusioni non è così semplice, per la complessità del fenomeno e perché, purtroppo, relegate ancora in una zona d’ombra” racconta a Voice Over Foundation Maria Marano, co-curatrice del report. Difficoltà accentuate dal fatto che sarebbe semplicistico, oltre che complicato, individuare un solo driver dietro la mobilità umana, soprattutto nel caso dei cambiamenti climatici, che sono moltiplicatori di minacce e colpiscono maggiormente le popolazioni che affrontano altre sfide strutturali (instabilità sociale, economica, politica), inasprendo o provocando ulteriori effetti avversi (carestie, conflitti armati, violenza).
Tali dinamiche si intersecano con fattori soggettivi (desideri, aspirazioni, aspettative, etc) e concorrono a costituire le motivazioni di ogni persona migrante. Eppure, nella valutazione delle domande d’asilo non si tiene conto di questi nessi e dal punto di vista giuridico-legale, la categoria di “migrante ambientale” o “rifugiato climatico” non ha valore. La Convenzione di Ginevra del 1951, che regolamenta lo status dei rifugiati, non include le cause climatiche tra i motivi di persecuzione.
Emblematico è il caso del Bangladesh, uno tra i paesi che, negli ultimi anni, ha subito maggiormentel’impatto del cambiamento climatico. Nel 2023 gli sfollati interni per cause climatiche sono stati 1.8 milioni, un numero elevato per un Paese che contribuisce solamente con una quota dello 0,5% alle emissioni globali. Nonostante ciò, il Bangladesh per il governo italiano è un Paese di origine sicura, che significa meno garanzie procedurali per chi richiede protezione. “L’esperienza dell’Accordo Italia-Albania ci ha dimostrato da subito, e sulla pelle di migranti in arrivo proprio dal Bangladesh, che la vulnerabilità delle persone non può essere vincolata da criteri burocratici che rischiano di diventare uno strumento di esclusione per tutti coloro che non vi rientrano”, evidenzia Maria Marano, considerato anche il fatto che dimostrare la matrice climatica-ambientale della migrazione è molto complicato.
Se introdurre questa categoria potrebbe essere utile per chi richiede protezione, sul piano dell’inquadramento complessivo del fenomeno non basta. Il rischio è quello di non riconoscere le responsabilità politiche che caratterizzano questi temi. “Le istituzioni internazionali non parlano mai delle motivazioni dietro il cambiamento climatico. Al massimo arrivano a dire che è un fenomeno antropogenico, ovvero riconducibile all’essere umano, ma non è così: alcuni miliardi di persone non producono quasi nessuna emissione di CO2”, spiega Gennaro Avallone, ricercatore dell’Università di Salerno. Il problema non è l’azione umana genericamente considerata, ma il sistema di sviluppo economico e culturale dominante che, per le sue logiche predatorie, ha conseguenze sociali e impatti drammatici sull’ambiente e sulla vita di milioni di persone. “Parliamo di un sistema che consente all’1% più ricco di possedere il 43% della ricchezza globale e di inquinare in un anno quanto il 99% più povero fa in 1.500 anni”, dice Maria Marano.
Jason W. Moore, docente di Economia politica presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Binghamton negli Stati Uniti, nel libro “Antropocene o Capitalocene?” scrive “il capitalismo non ha un regime ecologico, ma è un regime ecologico”, cioè un modo specifico di organizzare la natura subordinata alle necessità della produzione e accumulazione di ricchezza. Le risorse naturali (acqua, suolo, foreste, minerali, etc) vengono considerate come un oggetto esterno di cui appropriarsi, risorsa gratuita di materie prime o discarica per rifiuti, nel nome di una crescita infinita. Moore fa riferimento al concetto di Capitalocene per individuare nel modello economico capitalista, e nella dominazione dell'uomo sulla natura, il fattore scatenante del degrado ambientale.
Dunque, il cambiamento climatico non è un accidente storico, ma è un fenomeno determinato da forze sociali ed economiche. Gennaro Avallone evidenzia la continuità storica tra la recinzione delle terre comuni (enclosures), eseguita in Inghilterra a partire dal XVI secolo, e le migrazioni ambientali di oggi. In seguito alla privatizzazione dei terreni, molte persone vengono private dei mezzi di sussistenza e si spostano verso la città per cercare lavoro. Qui trovano le leggi contro il vagabondaggio, che da metà del ‘600, prevedono che i vagabondi, di fatto gli espulsi dalle campagne privatizzate, vengano internati nelle case di lavoro. Lo stesso accade oggi alle persone che, estromesse dal land grabbing, rimangono senza terre e sono costrette a spostarsi. “Non si tratta soltanto di un parallelismo storico, ma è la stessa logica appropriativa, di privatizzazione dei beni comuni, che si riproduce continuamente e determina una fortissima condizione di impoverimento delle popolazioni” sostiene Avallone. Oggi come allora, davanti alla perdita dei mezzi di sussistenza, molte persone si trovano costrette a migrare. Chi lasciava la campagna nel XVII secolo trovava nella città le leggi contro il vagabondaggio e le case di lavoro, chi migra adesso si scontra con i muri e le frontiere militarizzate e finisce nei campi per rifugiati, serbatoi di manodopera a basso costo per gli stati di arrivo.
L’appropriazione delle terre può avvenire attraverso l’imperialismo o attraverso la forza economica, ma gli effetti non sono diversi sulle popolazioni locali e il legame tra sfruttamento della terra e repressione della mobilità autonoma si ripete dal ‘600 fino ad oggi. In ambito climatico si parla di colonialismo non solo facendo riferimento alle responsabilità storiche dei Paesi del Nord del mondo rispetto alla crisi climatica (con un “Sud globale” che ne paga i costi maggiori in termini ambientali, sociali, economici), ma anche alle dinamiche predatorie del centro verso i margini, che vanno dall’accaparramento delle terre fertili e delle risorse idriche alle guerre per il petrolio o all’estrazione mineraria. “Senza considerare le false soluzioni per il clima, ossia interventi presentati per contrastare la crisi climatica che nei fatti si basano su meccanismi di mercato del carbonio o altre tecnologie che non mettono in discussione il modello energetico basato sulle fonti fossili e non intervengono sul taglio delle emissioni di gas climalteranti”, dice Marano.
Gli spostamenti di persone non sono indotti solo dalla crisi climatica, ma anche dalla delocalizzazione di industrie inquinanti, da pratiche agricole non sostenibili, da land e water grabbing, ossia sottrazione di terre o acqua alle popolazioni locali. Questa gerarchizzazione di terre ed esseri umani, messa in atto dal sistema economico e culturale capitalista, è rafforzata ulteriormente dal disastro climatico, che ha conseguenze molto più violente sulle terre ai margini che su quelle del centro, aumentando le disuguaglianze già esistenti. Proprio per questo motivo, come scrive la politologa Fatima Ouassak in “Per un'ecologia pirata. E saremo liberi” (Tamu Edizioni), la lotta per la giustizia ambientale deve muoversi insieme alla critica al sistema coloniale-capitalista e alle diseguaglianze da esso generate, che permettono lo sfruttamento di terre e popolazioni. Ai progetti ecologisti mainstream manca una “vera messa in discussione delle relazioni sociali che il sistema capitalista produce e su cui si basa, in particolare in termini di dominazione di classe, di genere e di razza”. Come soluzione l’autrice propone un’ecologia pirata, una lotta che includa la possibilità di liberarsi del sistema che causa il disastro climatico e delle restrizioni alla libertà di movimento. Quest’ultima deve diventare diritto fondamentale garantito e strumento indispensabile nella risposta all’emergenza climatica, con l’obiettivo di consentire alle popolazioni più vulnerabili e colpite dal disastro ecologico la possibilità di mettersi al sicuro.