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Hilal
Aprile 07, 2022
BLACKNESS

Un attacco alla propria identità è un attacco alla propria salute mentale

La voce di Hilal Beraki intervistato da Sara Manisera, FADA Collective

Blackn[è]ss fest è il primo festival in Italia che propone una rielaborazione dell'universo afrodiscendente. Eventi e tavole rotonde per riflettere sul concetto di nerezza, secondo un percorso di decolonizzazione del linguaggio e per discutere di temi come gli effetti sulla salute mentale della profilazione razziale, la discriminazione, il razzismo ma anche la musica, il cinema, i media e la rappresentazione. 

Voice Over Foundation ha scelto di accompagnare il festival in questo percorso e di raccontarlo per tutto l'anno, attraverso le voci di chi ne è protagonista.

Intervista ad Hilal Alexander Beraki, mediatore culturale, educatore presso un centro minorile ed esperto di salute mentale. 


D: Come ti chiami, ci puoi dire chi sei e cosa fai? 

R: Sono Hilal Alexander Beraki, sono siciliano, nato a Catania, e i miei genitori sono eritrei arrivati in Italia verso la fine degli anni '70. Il mio percorso di studi inizia con i media e la comunicazione, poi ho intrapreso un'altra strada. Ho iniziato un corso per diventare mediatore culturale, e poi ho iniziato a lavorare con Emergency. Questa è stata una bellissima esperienza, anche se molto dura: il mio ruolo era in prima accoglienza, quindi con i migranti appena arrivati. Poi ho lavorato per un'organizzazione delle Nazioni Unite, l'IOM, e infine per i Valdesi, dove ho coordinato un CAS [centro d'accoglienza straordinario], con i migranti che venivano dal sud-Sahara. Attualmente sono un educatore presso un centro per minori, e trovo che sia un lavoro che ti dà molto entusiasmo, dati i margini di progresso e le gratifiche che hai. 

D: Ho letto che tu hai fondato un'associazione. Mi puoi raccontare quando, perché, e qual è stata la visione che ti ha portato a fondarla?

R: L'associazione, chiamata "La seconda generazione", è stata creata nel 2009 da me e Elvira, una ragazza adottata, di origine filippina. All'epoca stavamo portando in Sicilia delle battaglie riguardanti la riforma della legge per la cittadinanza, e l'associazione lavorava anche con realtà diverse dalla nostra. Infatti, vi erano anche quelle dell'attivismo politico, dell'università e del lavoro... Ciò che accomunava tutti i partecipanti era il fatto di essere ragazzi di seconda generazione, nonostante fossimo di diversa nazionalità. Elvira, ad esempio, era di provenienza asiatica. C'erano persone dell'est europeo, o del sud America. Il nostro obiettivo comune era quello di sensibilizzare il territorio a quelle che erano le istanze di una cittadinanza che non era una vera e propria cittadinanza: di fatto lo eravamo soltanto fisicamente, ma non sulla carta. Quindi, abbiamo portato avanti diverse iniziative volte, appunto, a sensibilizzare le persone sulle difficoltà, ad esempio la ricerca di lavoro per i ragazzi di seconda generazione è molto complicata. Le iniziative erano rivolte soprattutto ad aziende del territorio, ed avevano lo scopo di far comprendere loro come la questione della cittadinanza crei dei gravi limiti all'accesso al mondo del lavoro. Senza dubbio, le aziende sono restie a contrattualizzare chi non ha la cittadinanza o è straniero: abbiamo cercato di abbattere quel muro di pregiudizio nei confronti di chi non avesse un passaporto non italiano. 

D: Qual è il rapporto tra accoglienza, migrazione e salute mentale? E quali sono le criticità che riguardano questo legame, in Italia, oggi?

R: Partiamo dal presupposto che questa pandemia ha dimostrato come la salute mentale sia un tema centrale oggi: tutti noi ne abbiamo risentito. Io, di solito, invito al ragionamento: prendiamo la pandemia e al suo posto immaginiamo di aver dovuto affrontare un viaggio in cui magari sono stato torturato, oppure ho visto torturare persone a me care, oppure non sapevo se la barca sarebbe affondata. Prendiamo la pandemia e amplifichiamo per dieci le preoccupazioni che ci ha dato. La magnitudo di certi eventi è molto più grave di altri, e questo andrebbe tenuto in considerazione, soprattutto per quanto riguarda la presenza di psicologi all'interno delle organizzazioni che si occupano di accoglienza. Questo è un discorso che faccio da anni: credo che migranti e addetti ai lavori non abbiano abbastanza supporto. Oggi non si è ancora capito che la salute mentale è come qualsiasi altro tipo di salute, è imprescindibile. Chi arriva qui ha bisogno di un supporto, di essere instradato ad una nuova normalità che non è più la sua. Bisogna normalizzare la salute mentale, capire che è un dato essenziale, e non risparmiare su di essa. Invece, dal Decreto Salvini in avanti si sono tagliati drasticamente i budget sull'accoglienza, e la salute mentale è stata considerata superflua, in maniera erronea, dal momento che è quella che permette la creazione di una nuova normalità. Ad esempio, tanti eritrei non vanno dal medico, perché nella loro vita precedente, il medico era a decine di km a piedi. Quindi se c'era qualche problema si aspettava che passasse da solo. Invece è una nuova abitudine che deve essere normalizzata e resa commestibile. Anche tanti addetti ai lavori ne risentono: spesso si licenziano perché arrivano ad una situazione di burnout, non solo per quanto riguarda lo stress da carico di lavoro, ma anche per quello emotivo. Per fortuna, nell'ambito minorile, ci sono i giusti investimenti. Però sarebbe bello che questa attenzione venisse estesa a tutto il mondo dell'accoglienza, destinando più fondi a ciò che riguarda la salute mentale. Tante persone sono determinate, arrivano in Italia, imparano la lingua, cercano lavoro e sono completamente focalizzati sull'obiettivo. Però non tutti sono così, alcuni hanno bisogno di una motivazione in più. Ci sono diversi tipi di esigenze e non tutti partono dallo stesso blocco di partenza.

D: Quali sono gli impatti nel medio-lungo termine della sottovalutazione della salute mentale, sia per le persone che emigrano, sia per gli addetti ai lavori? 

R: Gli effetti a lungo termine sono drammatici purtroppo. C'è un alto tasso di suicidi tra le persone così lontane da casa, che non riescono ad imparare una lingua difficile come l'italiano. Un percorso per la salute mentale farebbe in modo che queste persone non si debbano sentire così in difetto. Per di più, a volte si genera questo circolo vizioso: le persone passano un periodo ridotto all'interno dell'accoglienza e quando sono disperate possono scegliere tra due strade. O quella di farla finita, oppure si mettono nelle mani di chi ti spinge a commettere qualche reato. E quindi, per una specifica fazione politica, viene facile ventilare il pericolo di sicurezza all'interno del nostro territorio. La disperazione vera viene dal tracollo della propria stabilità mentale, e la mente è così affascinante e ricca di risorse che, purtroppo, a volte, ti fa prendere decisioni che non dovresti. Il discorso della salute mentale ci aiuta a capire quali sono i percorsi che la nostra mente dovrebbe seguire, sia per una maggiore conoscenza di noi stessi, che per un più variegato ventaglio di possibilità, che ci dia più scelte tra il suicidio e la criminalità. In maniera analoga, il percorso parallelo lo segue l'operatore, che riceve giornalmente storie e flussi di emotività che escono in modo impetuoso ed eccessivo. Ho notato che la salute mentale è un problema di lost in translation: non ci sono abbastanza mediatori culturali preparati, tante volte sono persone che sanno solo la lingua. Ci vogliono dei mediatori più preparati, meglio pagati ed utilizzati soprattutto nelle strutture pubbliche. 

D: Vorrei farti un'ultima domanda su Blackness. Cosa ne pensi di questo festival, di questo spazio? Pensi sia importante? Come lo vedi per il futuro?

R: Blackness è stata una bella iniziativa, una prima edizione veramente ben riuscita. Perché è importante che ci siano iniziative del genere sul territorio? Perché oggi parliamo di una disfunzione del linguaggio. Ci sono persone che sono molto attaccate ad un linguaggio più arcaico, ma nel frattempo l'Italia è cambiata e oggi c'è bisogno di un linguaggio e di un codice nuovo. E chi meglio delle persone nere che vivono in questo paese possono, non dico insegnare, ma riuscire a codificare un nuovo linguaggio e quindi riuscire a traghettare la cittadinanza verso un linguaggio più inclusivo e che rispetti ogni tipo di realtà? La cosa che mi è piaciuta di più del Blackness è che c'è stata la presenza di davvero tante voci, che venivano dal mondo dello spettacolo, dell'arte, dell'accoglienza, della salute mentale. Ha dato occasione di esporsi a tutte le realtà nere che hanno bisogno di un palcoscenico per esprimersi. Io vengo da una realtà, quella catanese, in cui ho subito micro-aggressioni e razzismo, anche se non in maniera drammatica, perché l'uomo siciliano bianco ha sempre visto il siciliano nero in un'ottica di subordinazione, quindi non c'era un'aggressione razzista, ma si vedeva una persona che non si relazionava con un proprio pari. Tutto questo può cambiare con l'impostazione di un nuovo linguaggio e con il rispetto di una diversità o di una similitudine che accomuna due persone nate in uno stesso territorio. È importante creare questo ponte, per normalizzare o escludere un determinato tipo di linguaggio. Ogni piccola realtà ha bisogno di tutelare la propria identità e la propria identità è strettamente legata alla salute mentale. Quello che riceve una persona in termini di micro-aggressioni, generalmente, è un attacco alla propria identità, e di conseguenza alla propria salute mentale. Ad esempio, le prime volte in cui le signore, quando passavo io, si tenevano le borsette strette ... a me salivano i cinque minuti. Adesso mi sembra la normalità, però non dovrebbe essere così. Una normalizzazione della nostra presenza su questo territorio serve per educare le persone e per non ricevere più attacchi alla nostra salute mentale. Quindi il Blackness è funzionale a portare a far conoscere a tante persone quello che succede all'interno delle nostre vite. Non lo facciamo più per noi, ma per le generazioni a venire, perché magari quando ci saranno i nostri figli, o i figli dei nostri figli, ci sarà meno bisogno del Blackness, o forse sarà fatto per raccontare le nostre storie. 


Photo credits: Michael Yohanes

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