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gruppo Ronke 1
Novembre 29, 2021
BLACKNESS

In Italia è mancata la rappresentazione delle persone nere e questo ha lasciato dei traumi

La voce di Ronke Oluwadare, intervistata da Sara Manisera, FADA Collective

Blackn[è]ss fest è il primo festival in Italia che propone una rielaborazione dell'universo afrodiscendente in Italia. Eventi e tavole rotonde per riflettere sul concetto di nerezza, secondo un percorso di decolonizzazione del linguaggio e per discutere di temi come gli effetti sulla salute mentale della profilazione razziale, la discriminazione, il razzismo ma anche la musica, il cinema, i media e la rappresentazione.

Voice Over Foundation ha scelto di accompagnare il festival in questo percorso e di raccontarlo per tutto l'anno, attraverso le voci di chi ne è protagonista.
Intervista a Ronke Oluwadere, psicologa e psicoterapeuta.

D: Ti puoi presentare, chi sei e di cosa ti occupi?
R: Mi chiamo Ronke Oluwadare, ho 34 anni, sono una psicologa e psicoterapeuta, laureata tra Milano e Padova e con qualche esperienza all'estero. Al momento faccio clinica con due tipologie di pazienti; quelli che sono chiamati "seconde generazioni", quindi italiani di origine straniera e i cittadini stranieri che vivono in Italia e che mi scelgono per una questione linguistica perché faccio terapia in inglese e anche se non è la loro lingua, è quella che sentono più vicina. Tanti miei pazienti mi scelgono per una questione legata alla mia nerezza, non ci sono molti terapeuti razzializzati in Italia e il tema del "multiculturalismo", non è affrontato così bene, anzi. Spesso psicologi e psicoterapeuti fanno delle gaffe con i loro pazienti.

D: Perché? Cosa manca?
R: Manca la preparazione, manca un'attenzione alla contemporaneità da parte di discipline come la psicologia, che sono ancora legate a nozioni datate. Il tema degli italiani di origine straniera o degli stranieri viene lasciato alla sensibilità del singolo ma è giunta l'ora che ci sia una formazione a tappeto. Oggi ci sono moltissimi cittadini stranieri o di origine straniera, non per forza la cosiddetta seconda generazione, anche la generazione di mia madre si sta avvicinando al tema della salute mentale ma non sempre trova dei professionisti con le mappe delle culture diverse, in grado di comprendere il vissuto e la storia di una persona. Questo manca in tutte le minoranze, ovvero manca la preparazione da parte di professionisti su tematiche come il genere, l'identità, l'essere di origini diverse.

D: Parlando di identità, di preparazione e di rappresentazione, cosa è mancato in questi 20, 30, 40 anni?
R: Se parliamo di professionisti nell'ambito sanitario, è mancata sia la preparazione, sia la rappresentazione ma è molto più importante la preparazione quando parliamo di professioni sanitarie. Per quanto riguarda la società italiana, invece, è mancata la rappresentazione. Dobbiamo pensare che in Italia è pieno di persone che non hanno mai avuto una conversazione con una persona nera. Cioè se considero che io sono nata nel 1987 a Roma e sono stata a lungo l'unica nera nella classe, nella scuola, nella palestra, nell'associazione di volontariato, nel palazzo, capite bene qual è la situazione. La rappresentazione è fondamentale anche per farti immaginare cose di cui tu non hai esperienza e se non la diamo e aspettiamo che le persone facciano questa esperienza è fantascientifico perché, al di là della propaganda, siamo molti meno di quanto si creda e quindi non possiamo aspettare che tutti gli italiani facciano esperienza di quella cosa lì. Nel frattempo, però, quello che sta accadendo è che ci sono cittadini italiani che a casa loro non si sentono a casa. E la prima cosa che fanno quando riescono a ottenere la cittadinanza è andarsene. Nella comunità nera gira questo meme agghiacciante dove c'è scritto "Gli italiani non hanno capito che il modo più veloce per liberarsi degli italiani di origine straniera è dare la cittadinanza così se ne vanno". E ovviamente se ne vanno perché non vogliono restare per farsi maltrattare o non vedersi rispecchiati da nessuna parte.

D: Qual è il pericolo di questa situazione?
R: Da una parte il rischio è che le persone che nascono e crescono qui sviluppino astio verso quella che è casa propria. Dall'altra parte, e lo dico da pragmatica, l'Italia forma, investe in queste persone che studiano, si laureano, che parlano due, tre o quattro lingue - e ciò significa avere una ricchezza culturale immensa - e poi le lascia andare via. Mi sembra poco funzionale per il futuro del Paese. Comunque il problema della rappresentanza è centrale, sia per chi fa parte della maggioranza della popolazione e non ha la minima idea di come rivolgersi all'altro, sia per chi vive la poca rappresentazione perché sente di non aver mai uno spazio, cioè nessun posto è casa tua, cosa che in termini identitari, chiamarlo trauma è riduttivo.

D: Perché è riduttivo?
R: Perché il bisogno dell'appartenenza è fondamentale. Le persone che nascono in un paese diverso da quello dei genitori si portano dietro un'appartenenza multipla ma al tempo stesso tutti intorno a te ti chiedono "ti senti più italiano o...?", quando in realtà questa domanda per noi è senza senso. Perché diventa problematico? Perché il mondo intorno a te parla di un'unica appartenenza, di un unico mondo possibile. Se solo avessimo avuto una pubblicità della Nutella con una famiglia nera, questo avrebbe fatto un gran bene a chi è nero e ha la Nutella in casa.

D: Quali sono le difficoltà e i sintomi più frequenti che riscontri nel tuo lavoro?
R: Uno è sicuramente questo, la costruzione identitaria. È un trauma che trovi negli adolescenti e nei giovani adulti. Un altro sintomo è l'ansia che, oltre ad essere il sintomo della nostra epoca, è legato a tutta una serie di aspettative legate a questa doppia appartenenza. C'è il tema del sacrificio e quindi i tuoi genitori si sono sacrificati, sono andati in un posto, si sono fatti trattare male... ecco tu non puoi fare il dj alle feste o scegliere di fare altro ma devi fare il medico. E alla fine diventi anche medico, solo che una volta raggiunto quel traguardo, escono fuori il malessere e l'ansia legati a una professione che non vuoi fare o che stai facendo per soddisfare le aspettative di qualcun altro. Recentemente sto riscontrando anche una serie di problematiche in quella che noi psicologi chiamiamo la nuova fase del ciclo di vita. Quindi persone che hanno fatto pace con la propria identità, lavorano, magari fanno ciò che vogliono ma devono trovare un partner o mettere al mondo un figlio e, mettendo al mondo un figlio nero, si riaprono delle ferite o dei traumi. E poi c'è tutto un lavoro che faccio con le ragazze, sulla sessualizzazione precoce del corpo nero e al come vivere in un corpo che non viene veicolato come un corpo degno di amore e di affetto. E anche questo è legato alla rappresentazione, cioè su come sono stati raccontati i corpi delle donne nere in questi anni. Infine un altro sintomo del malessere che riscontro tra i giovanissimi è il ritiro sociale, come ad esempio l'abbandono scolastico. I ragazzi, spesso, si rifugiano dentro i social nella loro bolla dove hanno una sorta di comfort zone, dato che i social si basano sul bias della conferma.


D: Quali sono le anime del Blackn[è]ss fest e perché c'è chi vuole aprirsi di più e chi di meno?

R: Da una parte c'è una sorta di desiderio di tutela della comunità dove le persone si sentono al sicuro, si sentono tranquille in questa "ora d'aria" creata dalla comunità. Dall'altra parte, c'è chi spinge affinché questa ora d'aria sia trasformativa rispetto a ciò che accade fuori, cioè porti a un cambiamento. Penso che sia una dinamica normale all'interno della comunità nera tra chi spinge verso la ghettizzazione e chi vuole essere portatore di cambiamento. Io penso che siano necessarie entrambe le cose. Lo spazio sicuro deve essere un luogo di ricarica ma non può diventare il tuo tutto. Queste anime diverse, comunque, fanno parte di una comunità nera che in Italia si sta formando e che è fatta di persone diverse, con percorsi diversi, con famiglie diverse e storie diverse.  Ciò che penso è che noi in Italia dovremmo fare un esperimento zero rispetto agli Stati Uniti, la Francia, o la Gran Bretagna, cioè andare a vedere cosa non ha funzionato lì e evitare di replicarlo. Per esempio evitare di ghettizzarsi o al contrario, far sì che la rappresentazione sia una risorsa che serve alla comunità ma anche e soprattutto a tutta la società. E ciò non significa mettere la persona nera dentro una pubblicità, ciò significa progettare, formare, e pensare che la diversità sia una risorsa per tutti e tutte.

Photo credits: Michael Yohanes

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