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julen bolin
Gennaio 16, 2023
Giustizia Sociale

Un reddito di base deve essere finanziato attraverso una riforma fiscale che tolga ai più ricchi per dare a chi ha di meno

la voce di Julen Bollain, economista spagnolo, politico e ricercatore, intervistato da Alessandro Sahebi

Dare soldi gratis, a tutti. Un’utopia che su Voice Over Foundation abbiamo già raccontato con le parole del sociologo indiano Sarath Davala, attualmente Presidente di Basic Income Earth Network e coautore del libro: ''Basic Income: A Transformative Policy for India". Non appena si parla di reddito universale di base e incondizionato, ovvero di un assegno mensile dato a tutti e tutte per poter condurre una vita dignitosa, la prima domanda che viene posta suona più o meno così: “Ok ma quanto costa farlo?”.

La questione, a dire il vero, per essere affrontata al meglio, dovrebbe tuttavia essere accompagnata da un secondo interrogativo: quanto costa non farlo?  

La questione economica da sola non esiste, perché la scienza economica è, alla radice, una scienza sociale. Quanto costa dunque non dare un supporto a chi non ha più un lavoro a causa dell’automazione? Quanto costa costringere un individuo a delinquere per sfamarsi (si considerino costi sociali, repressione, apparato giudiziario)? Quanto costano le malattie mentali e fisiche a gradiente sociale, ovvero quelle che hanno maggiore incidenza tra i poveri?

Il Reddito universale di base è una misura macro economica, i cui effetti a cascata sono difficilmente prevedibili, per cui la questione prettamente numerica - ovvero il costo - non può essere calcolata con il pallottoliere. Qualsiasi misura di Welfare State non è solo un costo per la collettività ma un investimento sociale che ha ritorni, anche economici, non immediatamente visibili e quantificabili. 

Per poter affrontare alcune spinose questioni abbiamo voluto intervistare Julen Bollain, ricercatore ed economista dell’Università Mondragon Unibertsitatea ed ex parlamentare nel parlamento basco per Podemos. 


D: Ciao Julen, iniziamo da una domanda aperta: perché ritieni il reddito di Base una misura urgente e necessaria? 

R: «Il reddito di base non è una misura nuova. Tuttavia, è vero che, oltre all'aumento delle disuguaglianze sociali che stiamo subendo, vi sono tre fattori che pongono il reddito di cittadinanza al centro del dibattito pubblico e dell'agenda politica. In primo luogo, il fallimento dei regimi di reddito minimo (come il reddito di cittadinanza in Italia, ndr.) nel raggiungere il loro obiettivo di sradicare la povertà. In secondo luogo, l'evoluzione del mercato del lavoro e l'incertezza che genera. E infine, la proliferazione di progetti pilota sul reddito di base in tutto il mondo. Quindi, il fallimento dei regimi di reddito minimo, l'aumento delle disuguaglianze e l'evoluzione del mercato del lavoro rendono il reddito di base più necessario e urgente che mai. Fortunatamente, con così tanti progetti pilota in corso in tutto il mondo, abbiamo molte prove sui risultati che un reddito di base potrebbe avere».


D: Hai parlato di progetti pilota, cosa intendi? Ci sono esperienze da cui, dal punto di vista economico, possiamo prendere spunto?

R: «Sono già stati realizzati circa 200 progetti pilota e sperimentazioni sul reddito di base nel mondo. È vero, alcuni andati bene e altri peggio, ma possiamo imparare molto da tutti i casi e quindi ottimizzare quelli nuovi che si stanno progettando. I progetti pilota su scala globale sono difficili da confrontare - un progetto in Kenya o uno in Finlandia sono molto diversi per contesto e sviluppo - ma tutti gli esperimenti hanno alcune caratteristiche comuni. Migliorano il benessere economico delle persone, riducono i livelli di stress ed i problemi di salute mentale, aumentano il senso di appartenenza alla società e aumentano -o almeno non riducono- il numero di giorni di lavoro per percettore. Per questo è facilmente smontabile il pregiudizio che vede l’UBI come strumento per far desistere al lavoro. In questo momento è in fase di progettazione un progetto pilota per la Catalogna, da lanciare all'inizio del 2023, davvero molto interessante perché coinvolge più di 5000 cittadini di ogni estrazione sociale. Ognuno di loro riceverà circa 800 euro, verranno misurati indicatori di salute, economici e sociali. Questo è uno degli esperimenti più grandi d’Europa, che probabilmente rilancerà con decisione il dibattito». 


D: Le teorie più comuni di UBI (Universal Basic Income) prevedono processi di redistribuzione della ricchezza. L'argomentazione economica più comune contro il reddito universale parla di probabile fuga di capitali, ovvero i ricchi scapperebbero se dovessimo alzare loro le tasse. Come rispondere?

R: «Indubbiamente la redistribuzione è un pilastro fondamentale. Un reddito di base deve essere finanziato attraverso una riforma fiscale che tolga ai più ricchi per dare a chi ha di meno. Gli studi sulla Renta Basica (il programma catalano previsto per il 2023, ndr) in proposito parlano chiaro: il 20% più ricco della popolazione vedrebbe aumentare la propria pressione fiscale e il restante 80% ne trarrebbe beneficio. Aumentano le tasse ai ricchi ma staremmo tutti meglio, non è invidia ma una questione di giustizia sociale.

Credo che l'intera società ne trarrebbe beneficio. Sia socialmente che economicamente. Non possiamo dimenticare che le società con maggiore uguaglianza sono anche le più competitive, da un punto di vista economico. Ci sarebbe una fuga di capitali? Ne dubito. In Spagna la pressione fiscale è sei punti inferiore alla media europea e i capitali non lasciano la Svezia per venire in Spagna. Né, direi, in Italia, no? Ovviamente un coordinamento europeo, se non mondiale, in questo senso è auspicabile. Se i ricchi scappano con le risorse dei Paesi dove le hanno estratte è parte del problema, non un fattore di cui prendere semplicemente atto».


D: Dal punto di vista economico, pensi che il reddito di base possa frenare la crescita economica? Se è così, dovremmo vederlo come un disastro o come una via d'uscita dal nostro sistema insostenibile?

R: «Piuttosto il contrario. Un reddito di base permetterebbe di aumentare la crescita economica di un paese migliorandone la produttività e il benessere, come si evidenzia dai progetti. Permetterebbe anche di valorizzare tutti quei lavori non remunerati che, non sommandosi al PIL, sono totalmente invisibili. Mi riferisco alla cura e al lavoro domestico o al volontariato. Il reddito di base ci permetterebbe di vedere che esiste un mondo oltre il PIL e che è possibile una società più solidale, in cui ogni persona può contribuire come meglio sa fare senza la pressione del bisogno. È qualcosa di inevitabile nel breve periodo in cui dovremo ripensare il nostro modello di protezione sociale, anche a causa dell'evoluzione del mercato del lavoro. Se non ci saranno posti di lavoro per tutti a causa dell'automazione, sembra sensato pensare che l'esistenza materiale dei cittadini debba essere garantita a prescindere dal mercato del lavoro. Come ha affermato di recente Papa Francesco: “Abbiamo bisogno di un reddito di cittadinanza affinché ogni persona nel mondo possa avere accesso alle necessità più elementari dell'esistenza"».


D: Pensi che possa migliorare il nostro impatto ambientale?

R: «Il reddito di base sarebbe uno strumento allineato con l'obiettivo di affrontare la crisi climatica, poiché non segue la logica produttivista del capitalismo.

Ci sono diverse ragioni per questo, ma una che è stata osservata in diversi progetti pilota è che fornisce ai cittadini sicurezza e stabilità economica che aprono la porta all'innovazione e alla vera imprenditorialità, rafforzando i legami comunitari e il sostegno reciproco. In questo modo si realizza un maggiore sviluppo locale attraverso la creazione di cooperative che valorizzano le interrelazioni di reti tra attori locali e rendono più efficiente e sostenibile l'uso delle risorse esistenti nel territorio. 

Una controtendenza alla globalizzazione selvaggia, una delle cause della crisi climatica a cui stiamo andando incontro».



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