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milano mediterranea
Maggio 23, 2023
Giustizia Sociale

Ridisegnare la geografia di Giambellino a partire dall’arte: la voce di Milano Mediterranea e dei suoi artist*

Intervista di Michela Grasso, SPAGHETTIPOLITICS

D: Ciao Anna, ti va di presentarti e parlarci di Milano Mediterranea? 

A: «Mi chiamo Anna Serlenga, sono la direttrice artistica e co-direttrice di Milano Mediterranea insieme a Rabii Brahim. Questo progetto nasce nel 2021; sentivamo l’urgenza di rimettere al centro una narrazione diversa delle persone e delle comunità che arrivano dalle diaspore del Mediterraneo, tramite l’uso delle arti contemporanee. Lo definiamo un centro d’arte partecipata e decoloniale, ed agiamo nel quartiere Giambellino. Il vero inizio è nel 2019-2020 quando abbiamo partecipato e vinto un bando del Comune rivolto a progetti dal basso. Prima di lavorare a Milano, sia io che Rabii Brahim abbiamo lavorato e vissuto sette anni in Tunisia, ma avevamo già conosciuto il Giambellino nel 2018. Abbiamo scelto di rimanere in questo quartiere perché è misto, comunitario e popolare, qui la presenza della comunità arabofona, è molto forte. È una comunità con cui noi abbiamo un’affinità elettiva, in un quartiere in grandissima trasformazione, quindi è molto interessante per osservare Milano e i suoi cambiamenti».

 

D: Negli ultimi anni avete fatto diversi progetti. Ti va di raccontarne qualcuno?

A: «Per cambiare le narrazioni rispetto a una specifica comunità di italiani “non nativi” è fondamentale utilizzare le arti. Per questo ogni anno facciamo un bando aperto alla comunità artistica diasporica, già residente in Italia. Gli artisti possono presentarci un progetto costruito con e per il quartiere. Questo è importante perché la dinamica coloniale si esprime non soltanto nei temi ma anche nella postura con cui si guarda alle cose. Noi riceviamo questi progetti e li selezioniamo insieme a un comitato di quartiere che abbiamo composto in questi anni; un gruppo eterogeneo di abitanti, lavoratori, lavoratrici, che abitano e transitano nel quartiere. È importante che i progetti non piovano dal nulla, e che ci sia una parte di collaborazione con le comunità che vivono quel territorio. 

Negli anni abbiamo selezionato progetti diversi tra loro, con artisti provenienti da diverse discipline. Penso a Mombao, un duo composto da Damon Arabsolgar e Anselmo Luisi. Mombao ha portato avanti un progetto molto interessante sull’intercettazione del patrimonio folklorico e tradizionale di diverse culture, per poi ricomporlo in una chiave contemporanea tra performance e concerto. Grazie al lavoro svolto nel quartiere, loro hanno anche partecipato al concerto organizzato per il nostro primo festival “Twiza”, che in berbero significa “fare insieme”. Il festival è stato portato avanti nello spazio pubblico del quartiere ed è entrato nella biennale. Lo rifaremo anche quest'anno, il 15-18 giugno in largo Balestra, con accesso libero e gratuito».

 

D: Come funzionano le residenze artistiche a Milano Mediterranea? 

A: «Quello che facciamo è cucire le proposte che arrivano e calarle nel tessuto urbano, cercando di intercettare le comunità di riferimento dell'intervento, e appoggiandole all’interno di spazi dove facciamo degli scambi. Questi scambi non sono mai scambi economici, ma un reciproco e mutuo aiuto. Per esempio, una dei nostri artisti in residenza è Soukaina che sta sviluppando un progetto molto bello chiamato “Ritessere nuovi volti”, basato sull’idea del ricucire l'identità, a partire dalla maschera. E visto che c'è questa dimensione fisica del cucito, abbiamo chiesto a ConservaMI, un’attrezzeria sociale che si basa sull upcycling, di poter utilizzare la sartoria e il loro spazio».

 

D: In che modo Milano Mediterranea prova a ridisegnare la geografia del quartiere?

A: « Il nostro nome deriva dalla necessità di riconoscere il valore e la ricchezza che la città ha acquisito grazie a processi di migrazione degli ultimi anni. Il Mediterraneo esiste all'interno della città grazie alla presenza di diverse comunità che la abitano e la trasformano e portano a una rottura geografica-culturale. Milano Mediterranea si basa sull'idea di spostare i meridiani e i paralleli della geografia e della cartografia a cui siamo abituati, e provare a ridisegnarli invertendo la rotta. Con questi principi ci siamo immaginati il festival, che vede la partecipazione di una comunità artistica basata in Italia e proveniente dalle diaspore, messa in dialogo con artisti internazionali, quindi cerchiamo di far convergere ulteriormente questi paralleli e di farli approdare e atterrare in Giambellino. Secondo noi è importante perché spesso pensiamo che la produzione culturale sia un campo innocente. E invece non lo è, anzi; il campo della produzione culturale tende a riprodurre narrazioni egemoni e a continua a perpetrare delle forme di discriminazione. 

Come artisti, curatori e curatrici, crediamo sia importante prendere questo statement politico, portando una proposta diversa. Quest'anno oltre al formato più legato al festival, abbiamo creato un'altra linea parallela che scorrerà nei giorni di giugno e che abbiamo chiamato scuola decoloniale. Abbiamo chiesto ad alcuni artisti di lavorare su pedagogie radicali che partono dalle proprie pratiche. Quindi proviamo a riflettere sui termini della decolonialità attraverso delle pratiche artistiche per renderle uno spazio di formazione e crescita collettiva».

 

D: Perchè l'arte ha questo ruolo così importante nel cambiare la nostra percezione della città, della nostra storia e del nostro passato?

A: «Le arti hanno il grande privilegio di lavorare con il linguaggio, e quindi con la produzione di narrazioni. Io ho notato che in questi anni il dibattito intorno alla colonialità è molto cambiato. Quando abbiamo avviato Milano Mediterranea nel 2019, il dibattito sul colonialismo nell’arte non era ancora esploso in Italia. L’arrivo di questo dibattito è avvenuto proprio grazie alla presenza di una generazione di artisti, curatori, attivisti, che hanno occupato uno spazio. Spesso si pensa che una delle questioni sia “dare voce”, ma questo è un paternalismo coloniale, le voci ci sono, hanno però bisogno di spazi di ascolto. A Milano oggi c’è una generazione molto giovane e consapevole, che inizia a muoversi in svariati campi, dall’attivismo alla produzione culturale. In questi giorni a BASE Milano, abbiamo iniziato un percorso progettato insieme ad altre realtà come Moleskine Foundation, che si chiama I.D.E.A. Con questo percorso vogliamo mettere in discussione l'accessibilità delle istituzioni culturali cercando di prevenire e identificare tutti quegli elementi di diversity washing che vediamo in questo periodo in cui questo tema va molto di moda, e che spesso viene affrontato in una maniera non sostanziale, ma soltanto di facciata. Credo che costruire delle processualità che si basino su dei percorsi artistici abbia come primo vantaggio quello di creare delle relazioni molto speciali. E la qualità della relazione che si innesca intorno a un processo artistico è raramente riproducibile all'interno degli spazi della quotidianità. Questa esperienza così preziosa e così speciale ha una grandissima capacità trasformativa. Spero che lavorare dentro un quartiere, dentro un territorio, in modo trasversale, possa diventare una leva per seminare dei germi di cambiamento per il futuro».

 

D: Come sta andando il progetto di Milano Mediterranea? Gli abitanti del quartiere hanno reagito positivamente? 

A: «Noi lavoriamo in una maniera molto specifica e quindi non ci poniamo il tema del quanto però quello che posso notare è che in questi tre anni il comitato di quartiere è sempre stato molto partecipato. A volte in maniera più o meno fluida, persone che vanno, persone che vengono, persone che tornano. La partecipazione attiva al processo decisionale è sicuramente uno degli elementi di forza del progetto e vedo che in qualche modo le persone ci si affezionano. Trovarsi a parlare di un processo artistico, di come valutarlo, è anche un'occasione per parlare d'altro, per portare a galla temi che altrimenti sarebbero molto difficili da affrontare. Durante la residenza di Soukaina, abbiamo fatto questa sperimentazione in cui abbiamo mescolato i linguaggi di comunicazione. Abbiamo deciso di fare volantinaggio, in arabo e italiano, in una postazione all'interno del mercato settimanale, nelle vie del quartiere e devo dire che è stato interessante il fatto che abbiamo intercettato moltissime persone della comunità, soprattutto donne arabofone che poi si sono presentate ai laboratori. Questo è un pubblico che raramente siamo riusciti a intercettare, quindi piano piano stiamo definendo le strategie e vediamo che c'è una risposta da parte del quartiere».


D: Ora passiamo a Houssem e Soukaina, i due artisti selezionati dalla open call di Milano Mediterranea, vi andrebbe di presentarvi? 

H: «Sono Houssem Ben Rabia , ho 32 anni e sono tunisino. Vivo in Italia da ormai 12 anni e faccio il regista ma lavoro anche nel sociale, come mediatore culturale e educatore. Ho studiato cinema al Dams di Bologna, e mi sono poi specializzato in cinema, televisione e produzione multimediale. Questa passione è nata quando ho partecipato al Giffoni Film Festival e da lì ho deciso di venire a studiare cinema in Italia». 

S: «Sono Soukaina Abrour, ho 25 anni e vivo in Italia da 22 anni. L’anno scorso ho concluso l’Accademia di Belle Arti a Venezia, e adesso mi trovo a Milano per lavoro. Al momento faccio parte della residenza artistica presso Milano Mediterranea. Nel mio percorso artistico sono partita da lavori più digitali: arti visive, fotografia, post produzione. Poi ho iniziato ad approcciare le arti performative, e adesso spazio tra diverse modalità».

 

D: Quali sono i vostri progetti a Milano Mediterranea?

H: «Ho partecipato all'open call di Milano Mediterranea con il progetto intitolato “Lo sguardo giovane su Giambellino”. L’idea consiste nella realizzazione di un prodotto audiovisivo che probabilmente prenderà la forma di un documentario realizzato con le ragazze e i ragazzi che risiedono nel quartiere. Saranno loro a raccontare attraverso le videocamere dei loro cellulari, la loro quotidianità nel quartiere, saranno anche loro a scegliere i soggetti che riterranno più significativi per far emergere l'identità del Giambellino. Spero di finire il prodotto entro giugno così da presentarlo al festival. Non sono mai stato al Giambellino prima e mi piacerebbe che i ragazzi mi guidassero verso la scoperta del loro quartiere, e diventassero anche loro più consapevoli del potenziale artistico e culturale». 

S: «Il mio progetto è un laboratorio che si sviluppa in diverse giornate e consiste in un'iniziale raccolta di tessuti e di materiali di scarto. La seconda fase è il riutilizzo: dagli scarti costruiamo maschere da utilizzare in momenti di festa affinché il progetto artistico diventi sempre più collettivo e comunitario. La prima parte del progetto mi ha portato a conoscere il quartiere e il quartiere ha conosciuto il mio lavoro. Per promuoverlo, abbiamo messo un banchetto al mercato, andando a parlare con le persone. Abbiamo anche creato un momento di raccolta dei materiali come oggetti e stoffe. 

Il tema delle maschere nasce da un lavoro di indagine sul volto come vettore di significato. Come trasformare il volto? Cos’é l’assenza del volto? Per poi arrivare alla dimensione della festa e alla possibilità di una trasformazione accolta collettivamente. Adesso sono in una fase di sperimentazione. Mi interessa il processo di costruzione, il lavoro manuale e il cucito collettivo anche come dimensione per riprendersi un tempo più lento e diluito. È un lavoro inclusivo perché non richiede abilità particolari e offre la possibilità di esplorare i materiali, di poterci giocare».

 

D: come si lega il vostro progetto al Mediterraneo? 

H: «Il tessuto identitario del Giambellino è composto anche da persone che provengono da un'altra riva del Mediterraneo, quindi è importante raccontare questo miscuglio».

S: «Il lavoro delle maschere deriva anche da un mio personale immaginario sviluppato intorno all'ornamento e all'abito. La mia cultura di festa marocchina si fa portatrice di alcuni dettagli, alcune cose che ne raccontano la storia. Infatti suggerisco nei workshop di fare una costruzione immaginifica, partendo dal proprio patrimonio culturale».


D: Che progetti avete per il futuro? 

H: «Adesso che ho la possibilità di muovervi tra l’Italia e la Tunisia più facilmente, mi piacerebbe iniziare a lavorare in Tunisia con progetti audiovisivi, artistici e sociali che mettano al centro il tema dell’inclusione».

S: « Non ho ancora progetti precisi per il futuro. Per adesso porto avanti i due che ho iniziato, imparando a conoscere anche il Giambellino come quartiere».



 




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