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evastaizitta
Aprile 18, 2024
Giustizia Sociale

La figura della strega esiste perché il suo potere e le sue conoscenze sono pericolose e vanno arginate

La voce di Giulia Paganelli, intervistata da Chiara Pedrocchi e Michela Grasso

Intervista a Giulia Paganelli (@evastaizitta), antropologa e autrice dei libri Maleficae, Corpi ribelli e del podcast Herbariae.


D: Ciao, ci puoi dire chi sei e cosa fai nella vita?

R: Sono un’antropologa e mi occupo di antropologia del corpo e cognitiva. All’università ho avuto come docente Barbara Pinelli, ricercatrice a Milano Bicocca. Grazie a lei e a una lezione su Aihwa Ong, un’antropologa cambogiana, ho scoperto la possibilità di indagare il corpo come sistema di simboli di matrice culturale. Leggere “Da rifugiati a cittadini”, la sua etnografia, ha attivato in me il collegamento con i corpi delle donne durante i processi di stregoneria. 

Ho una laurea in storia, e sono sempre stata convinta che le discipline sociali e umanistiche dovessero comunicare tra loro. Quindi ho deciso di applicare l’antropologia alla storiografia. Poi mi sono trasferita a Praga, dove sono rimasta due anni per analizzare i documenti dei processi alle streghe svolti nel Nord Moravia. Tra i più brutali dell’impero asburgico. Quindi mi sono interessata a come segni e marchi si colmano di significato culturale, e i corpi smettono di essere corpi biologici. Secondo me i corpi sono prevalentemente culturali. 

 

D: Come mai sui social ti chiami Evastaizitta?

R: Nel 2019 stavo facendo una conferenza ad Harvard, e ho pensato sarebbe stato utile portare i concetti di cui stavamo parlando fuori dagli ambienti accademici, per permettere alle persone di costruire ragionamenti in modo collettivo. Mi è stato risposto che a quel punto noi che eravamo lì saremmo stati inutili. 

Tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 sono tornata ai miei studi. Mi sono chiesta a cosa serva quello che facciamo e studiamo se non lo mettiamo in condivisione. 

Eva è stata la prima persona della cosmogonia cristiana a essere redarguita perché aveva mangiato, quando in realtà il suo era un atto di accessibilità: voleva accedere alla conoscenza del bene e del male, ed è stata messa a tacere immediatamente. La conoscenza doveva essere esclusiva e non accessibile, e il cibo era un modo per tenere sotto controllo le persone. 

Quando ho iniziato Evastaizitta e ho cominciato a parlare di grassofobia e corpi grassi mi sono resa conto che avrei avuto bisogno di questo canale quando avevo 15 anni. Il mio progetto non è per me, che conosco già le cose di cui parlo: è per gli altri. Se c’è anche solo una persona che con quello che dico costruisce dei ragionamenti scardinando questo senso di oppressione, allora ne è valsa la pena. Io sono per le conversazioni collettive: è il motivo per cui Corpi ribelli non è un saggio scritto da sola ma è anche un’antologia.

 

D: Cosa vuol dire avere un approccio femminista alla storia?  

R: La storicità del femminismo è necessaria. Noi possiamo indagare le dinamiche generali solo se abbiamo ben chiara la dinamica storica, altrimenti mettiamo solo uno accanto all’altro tanti momenti separati. 

Tra la fine degli anni ’60 e metà degli anni ‘70 i femminismi sono entrati nell’università. C’è stato un cultural turn, un cambiamento totale. I femminismi prendono in mano le scienze umane e sociali e si accorgono che non esistono donne nelle discipline sociali e umanistiche, e quindi la storia che abbiamo studiato fino a quel momento è fatta e raccontata solo da maschi. Nessuno si era mai preoccupato di chi restava a casa: erano loro, le donne, a costruire la dinamica storica, non chi combatteva. Il tessuto socio-culturale e il modo in cui la storia si tesse giorno dopo giorno era costruito dalle donne. Quando abbiamo introdotto gli women studies prima e i gender studies poi, ci siamo rese conto che avevamo avuto una visione così parziale e frammentata che era come se non sapessimo niente. 

Il movimento femminista ci mette davanti ai secoli, ci fa riguardare le cose che sono accadute e rivedere le storie che sono arrivate fino a noi, che non significa cancellarle ma significa ampliarle, aprire uno spazio e guardare cosa c’è oltre a quello che sappiamo. Questo cambia tanto anche del nostro presente. 

 

D: Tu prima dicevi di aver lavorato sulle streghe. Se dovessi identificare delle streghe oggi, chi sarebbero? 

R: Quando le persone indossano i panni delle streghe moderne io sono titubante. Quando vedo i cartelli con scritto “siamo le figlie delle donne bruciate”, per esempio. Questo sguardo è parte del mio impianto storico. Quel sangue non può essere pulito, e noi dobbiamo ricordarcelo. Il sangue delle donne bruciate è indicativo di una situazione che non è confinata nel tempo e nello spazio, ma è una dinamica generale che si ripete costantemente, sempre identica a se stessa. Sono titubante quando impersonifichiamo oggi le streghe o ci attribuiamo quella categoria edulcorandola di tutta l’atrocità che c’è stata legata a quella figura. Sicuramente ci sono delle pratiche che vengono tramandate, principalmente in misura matrilineare. Non sono sicura di poterle inserire sotto il cappello della strega, però ci sono dei punti di contatto, per esempio con le donne che praticano la segnatura delle caviglie del fuoco di Sant’Antonio. Abbiamo anche una tradizione di tarantolismo e di donne che conoscono e usano le erbe per curare, ancora adesso. 

Sono convinta che tutto ciò che ha a che fare con l’autodeterminazione femminile riguardi sempre la pratica collettiva. Ci sono grandissime studiose che, ad esempio, lavorano molto sulla cartomanzia, e molte che lavorano sull’astrologia. Penso che tutte queste discipline possano rientrare sotto il cappello delle discipline che un tempo erano attribuite alla figura culturale della strega. Ma quella figura culturale esiste proprio perché queste discipline sono state considerate di serie B, oppure molto pericolose, quindi bisognava in qualche modo arginarle. 

 

D: Che cos’è e dove si trova quella che tu chiami “la terra dei corpi che nessuno vuole”?

R: Vorrei rispondere che è un posto immaginario, ma non credo sia così. Credo che sia tutta la parte d’ombra in cui vengono silenziati e invisibilizzati i corpi che non corrispondono a un modello estetico canonico. È una terra riconosciuta da tutti, perché verso quei corpi noi pensiamo di non dover avere riguardo, di non dover aver cura e di non dover avere neanche curiosità. Diamo per scontato che sia giusto che stiano nel silenzio, che nessuno li guardi, che non vengano mai inclusi nelle conversazioni sociali, ma mentre alcune discriminazioni riescono in qualche modo a recuperare un po’ di terreno e quindi a smarginare dalla terra dei corpi che nessuno vuole, per altre discriminazioni il cammino è ancora molto lungo.

Sicuramente lì c’è tutto quello che non rientra nei desideri dello sguardo maschile. E poi c’è tutto quello che non rientra nelle dinamiche di potere. 

 

D: Che cosa significa che “il nostro sistema culturale tende a inventare nuovi mostri per incassare i colpi delle donne dissidenti”?

R: Quando ho iniziato a studiare i corpi femminili durante i processi di stregoneria mi è stato subito chiaro che la strega era una sorta di paravento dietro cui nascondere tutt’altro. La studiosa Silvia Federici dice che dietro questo velo ci sono tantissime dinamiche di potere. Le donne accusate di stregoneria erano prevalentemente levatrici, guaritrici, figure femminili che, all’interno delle loro comunità, svolgevano due compiti. Curavano i corpi delle donne in gravidanza, e quindi avevano nelle mani la conoscenza pratica dell’utero e della riproduzione della specie, che è la cosa che spaventa di più in assoluto il sistema patriarcale perché non ha questa conoscenza pratica. Inoltre le guaritrici erano figure di riferimento all’interno della comunità. I medici spesso erano lontani dai nuclei urbani e rurali e quindi chi sapeva curare gli altri diventava una figura centrale e apicale della società, non solo per le erbe e per le guarigioni. Avevano voce in capitolo anche su questioni più grandi. Nel momento storico della grande guerra delle università contro queste figure, il sapere medico è stato internalizzato tra le mura accademiche e c’è stata un’istituzionalizzazione fatta principalmente in contesto religioso: i medici erano sacerdoti e preti che studiavano non sui corpi, ma sui trattati e le tavole di Galeno. Quando queste persone andavano nelle comunità per guarire qualcuno, c’era dall’altra parte la figura della guaritrice che invece aveva una conoscenza pratica e sapeva cosa fare. Il sacerdote, che conosceva solo il salasso, cioè la sottrazione terapeutica di una certa quantità di sangue dall'organismo per ridurre la massa del sangue circolante, lo usava per curare ogni cosa provocando anche morti, e trovava dall’altra parte una persona che gli dava torto. Si è sviluppato un contrasto di poteri, per cui la guaritrice alla fine vinceva sempre perché stava nella quotidianità della comunità.

A un certo punto sul corpo di queste donne si costruiscono delle maschere: il risultato di stratificazioni di credenze, bolle papali, manuali. C’era un intero impianto teorico che contribuiva alla creazione di questa narrazione. C’era sempre la figura di una donna mostruosa, con troppo potere, che deve essere fermata in qualsiasi modo possibile. Le maschere riservate alle donne non hanno niente a che fare con l’estetica, ma con la creazione di un esercito di corpi docili. Quando c’è qualcosa di abbastanza potente da far paura al sistema di potere si crea un mostro. Le persone non vedono l’ora di avere dei mostri perché per contrapposizione loro si sentono buone. Creare un mostro significa anche legittimare la sete di violenza che si diventa autorizzati a esercitare. Si esercita redarguendo le persone perché non rientrano in un modello estetico, ma anche estromettendole e spostandole sempre di più, versi i margini, accusandole e portandole a processo. Tutto questo non racconta niente del mostro, ma racconta di come noi cerchiamo di mantenere il controllo sulla società così come è precostituita.

 

D: Come scegli le storie che porti come esempio quando scrivi?

R: I miei genitori guardavano molti film, e non si sono mai fatti remore rispetto a quello che potevo o non potevo guardare. Mia madre, poi, mi ha messo in mano i primi libri molto presto. Così, negli anni ho accumulato una buona serie di storie. 

Attraverso le storie trasmettiamo dinamiche culturali, visioni del mondo e parole. I popoli liberi sono quelli che hanno tante parole per descrivere le cose, hanno la possibilità di scegliere, e possono inventarne delle altre. A volte c’è la necessità di smettere di usare parole che magari sono state colonizzate per non reiterare quella dinamica. 

Funziona un po’ come il telaio, è una concatenazione continua, per cui un singolo vale zero ma alla fine tutte le storie si mescolano e la grande magia arriva quando ci sono le intersezioni e gli spazi comuni. È lì che si sente la continuità. Dalle discontinuità, invece, si impara qualcosa che fino a quel momento non si sapeva. La dimensione collettiva è necessaria per mettere insieme le storie. Con le storie le persone possono trovare risposte a delle domande che si pongono da tempo, oppure farsi venire dei dubbi. Noi non siamo mai proprietari delle storie: le storie sono proprietarie di loro stesse, e noi al massimo ci navighiamo sopra. Alcuni scrivono storie, ma nel momento stesso in cui queste storie escono dalla penna o dalla tastiera e approdano a un’altra persona smettono di essere nostre e diventano di tutti. Per questo vanno maneggiate con cura. 

 

D: Come si può essere intersezionali senza lasciare indietro nessunə?

R: Partirei col chiedersi come possiamo essere intersezionali. In questo momento faccio un po’ fatica ad avvertire le intersezioni. Fatico a vedere come i vari ragionamenti possono intersecarsi in un discorso collettivo. Anche l’intersezionalità per me è una pratica. Significa mettere a disposizione gli spazi, creare altri spazi, cercare di fare le cose insieme, mettere insieme le conoscenze per buttarle fuori. 

Mi domando se l’intersezionalità sia uno spazio reale, oppure se a un certo punto ci sia un limite per cui possiamo dirci soddisfatt3 dell’intersezionalità che abbiamo raggiunto. Mi viene da chiedermi se l’intersezionalità sia uno spazio fruibile o sia solo un’idea in senso platonico, che nella sua concretezza possa solo e inevitabilmente essere imperfetta.

 

D: Quali risorse consiglieresti su queste tematiche?

R: Tutto Michel Foucault. La scrittura dell’altro di Michel de Certeau, tutto Bourdieu, e poi Nancy Scheper-Hughes, Csordas con il concetto di embodiment, Merleau-Ponty. Tantissima letteratura: tutte le scrittrici ci parlano di corpi senza dircelo. 

Oggi abbiamo Sabrina Strings con Fatphobia, che racconta la matrice razzista della grassofobia, c’è stata Simon de Beauvoir, ci sono Vera Gheno, Carlotta Vagnoli, Jennifer Guerra. Consiglio anche Il mito della bellezza di Naomi Wolf e La caccia alle streghe di Silvia Federici. 

E infine consiglio di lasciarsi stupire da ciò che si incontra sulla propria strada. Io mai avrei pensato che un’antropologa cambogiana mi potesse portare qui. I percorsi sono fatti di particolari, di incidenti e di casualità. È importante partire dalle basi teoriche, ma poi sperimentare molto.

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