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Marzo 12, 2024
Giustizia Sociale

I CPR sono prigioni disumane che devono essere chiuse

Approfondimento di Adil Mauro

In Italia si continua a morire di detenzione amministrativa nei CPR, veri e propri lager per i cittadini non comunitari sprovvisti di un regolare documento di soggiorno oppure destinatari di un provvedimento di espulsione. Si tratta di luoghi definiti nel 2019 dall’allora Garante dei detenuti Mauro Palma “peggio del carcere” che l'attuale esecutivo vorrebbe potenziare e ampliare.


Nella struttura di Ponte Galeria, situata alle porte di Roma, lo scorso 4 febbraio si è tolto la vita Ousmane Sylla, 21enne originario della Guinea. "Per favore, riportate il mio corpo in Africa, mi manca tantissimo il mio Paese, mi manca tantissimo mia madre. Le forze dell'ordine non capiscono nulla, nemmeno la mia lingua. Non ne posso più, voglio solo che la mia anima riposi in pace". Questo è il messaggio che Sylla ha lasciato sul muro della sua cella prima di impiccarsi con un lenzuolo a un'inferriata. Per la rete Mai più lager – No ai Cpr sarebbero all'incirca quaranta le persone che hanno trovato la morte in questi centri da quando sono stati istituiti nel 1998.


Da anni realtà come la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) denunciano il doppio paradosso legato alla detenzione senza reato nei CPR: “si può essere privati, anche per mesi, della propria libertà pur non avendo commesso alcun crimine e, allo stesso tempo, non vedersi neppure attribuite quelle garanzie (habeas corpus; giusto processo) e quei principi (tassatività, ragionevolezza, proporzionalità) propri della materia penale”.


La morte di Ousmane Sylla “deriva dalle condizioni inumane all'interno dei CPR, ma in particolar modo dal prolungamento dei tempi di trattenimento che sono stati approvati dal Governo Meloni”, spiega a Voice Over Foundation Federica Borlizzi, avvocata e collaboratrice dell'area legale della CILD. “Con la vecchia normativa Sylla sarebbe stato liberato a dicembre, visto che tra l'altro l'Italia non ha accordi con la Guinea. La nuova normativa ha protratto il termine a 18 mesi, tornando ai livelli del 2011 rispetto ai termini massimi di trattenimento”, ricorda Borlizzi.


In seguito alla morte di Ousmane sono avvenute delle proteste all'interno del CPR di Ponte Galeria. “Quattordici persone rischiano fino a sei anni di reclusione”, dice Borlizzi. “Parliamo di condanne che rischiano di essere anche molto gravi per essersi ribellati a delle condizioni inumane e dopo aver visto peraltro morire un loro compagno”.


Un rischio concreto visto che il clima, anche nelle aule giudiziarie, è molto diverso rispetto ad alcuni fa. Oggi infatti sarebbe quasi impossibile leggere una sentenza come quella del Tribunale di Crotone che, nel 2012, riconobbe la legittima difesa ad alcuni stranieri trattenuti nell'ex CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Isola Capo Rizzuto. Gli imputati reclamarono la libertà inscenando una protesta, e lanciando sassi e calcinacci verso il personale di vigilanza del Centro. Nella sentenza le condizioni di vita nella struttura calabrese vennero definite “lesive della dignità umana”, configurando una violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”).


Un altro aspetto controverso è la crescente privatizzazione nella gestione di questi centri di detenzione. L'ingresso di enti privati interessati soprattutto alla massimizzazione del profitto “ha inevitabilmente comportato un deterioramento delle condizioni – già precarie – delle persone trattenute”, come segnala sempre la CILD in un rapporto pubblicato l'estate scorsa: “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”.


L'affare prosegue anche quando gli “ospiti” – così vengono chiamate le persone detenute – escono da questi centri. “Abbiamo seguito dei ragazzi che si sono trovati per strada dall'oggi al domani”, ricorda Borlizzi. “Immaginatevi cosa significa ritrovarsi per strada, a Palazzo San Gervasio, un paesino di 5000 abitanti sperduto nelle campagne della provincia di Potenza. Parliamo di persone che si trovano senza risorse economiche perché non hanno nulla e che di fatto finiscono per diventare senza dimora e manodopera a basso costo nei campi. Tutto il sistema di irregolarità è funzionale allo sfruttamento lavorativo che non viene indagato a sufficienza”.


All'inizio di quest'anno proprio il CPR di Palazzo San Gervasio è finito al centro di un'inchiesta della procura di Potenza. Le indagini sulla gestione della struttura tra il 2018 e il 2022 coinvolgono una trentina di persone (compresi agenti di polizia e operatori sanitari) e riguardano diverse ipotesi di reato: maltrattamenti, violenza privata pluriaggravata e falso ideologico. Durante una conferenza stampa il procuratore di Potenza Francesco Curcio ha parlato di almeno 35 casi di maltrattamenti nel centro di Palazzo San Gervasio. 


L'anno scorso il programma di Canale 5 Striscia la notizia diffuse un video in cui si vedeva un agente di polizia che obbligava un migrante ad assumere un farmaco. Ma quello di Palazzo San Gervasio non è un caso isolato.


La somministrazione quotidiana di grandi quantità di psicofarmaci per “tenere buoni” i migranti reclusi nei CPR è stata documentata lo scorso aprile da un'inchiesta di Altreconomia. Tra le testimonianze raccolte quella di Nicola Cocco, medico ed esperto di detenzione amministrativa, riassume bene la questione. “A differenza della realtà carceraria, nel CPR la cura della salute non è affidata a medici e figure specialistiche che lavorano per il sistema sanitario nazionale, bensì al personale assunto dagli enti gestori il cui ruolo di monitoraggio si è dimostrato carente, se non assente”.


Nonostante le evidenti criticità di questi luoghi ci troviamo in una fase di espansione della detenzione amministrativa. L’articolo 10 del decreto Piantedosi 20/2023 ha consentito la deroga al Codice degli appalti, prevedendo la possibilità di ricorrere alla procedura negoziata per l’appalto dei centri senza previa pubblicazione di un bando di gara, salvo il rispetto di alcune norme, come le leggi antimafia. Deroghe che rientrano nei poteri del commissario straordinario Valerio Valenti nominato per lo stato di emergenza sull’immigrazione, introdotto lo scorso aprile e prorogato fino ad aprile 2024. 


“La costruzione dei nuovi CPR è stata affidata al genio militare”, dice Borlizzi. “Si è modificato il codice dell'ordinamento militare aggiungendo questi centri alle infrastrutture strategiche per la sicurezza nazionale. Davanti a questo irrigidimento della normativa così violento ci deve essere una risposta forte della società civile. A livello romano si sta tentando di costituire una rete formata da diverse associazioni che coinvolga le stesse comunità razzializzate e riesca a contrastare la presenza di un CPR che esiste nel nostro territorio da 26 anni, cioè da quando è in vigore la detenzione amministrativa. Il centro di Ponte Galeria è l'unico CPR che prevede una sezione femminile dove sono detenute molto spesso donne sopravvissute alla tratta e alla violenza”. 


La rete romana sta muovendo i primi passi, sollecitando quelle istituzioni che devono prendere parola come il Campidoglio e il Comune di Roma. Ma si sta provando anche a chiedere qualcosa di più, come sottolinea Borlizzi. “Chiediamo l'istituzione di una commissione di inchiesta per la chiusura dei CPR che possa chiedere conto a prefettura ed ente gestore di quello che avviene in quel luogo dove noi come società civile, ma anche voi come giornalisti, non riusciamo ad entrare. L'ambizione è quella di collegarsi con tutte le diverse realtà sparse sul territorio nazionale impegnate nella stessa battaglia”.

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