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cotugno
Febbraio 07, 2024
Giustizia Climatica

Anche il clima è una questione politica: perché dobbiamo immaginare un nuovo mondo per cambiarlo

La voce di Ferdinando Cotugno, intervistato da Michela Grasso e Chiara Pedrocchi

La voce di Ferdinando Cotugno, giornalista di Domani e autore di “Primavera Ambientale”.


D: Come è cambiata la narrazione della crisi climatica negli ultimi anni? Come si scelgono le parole per arrivare a tutti?

R: La narrazione della crisi climatica è cambiata perché la situazione è peggiorata: il 2023 è stato l'anno più caldo mai affrontato dall’umanità, e probabilmente il 2024 sarà peggio. La crisi climatica si è imposta alla nostra attenzione con la non negoziabilità della realtà fisica e materiale, obbligandoci a parlarne sempre di più. Inoltre, l’arrivo dei movimenti per il clima è riuscito a farci visualizzare un problema di cui si sapeva da decenni, ma di cui si parlava poco e male. La nascita di Extinction Rebellion e Fridays for Future ha portato enormi masse nelle piazze di tutto il mondo, aprendo i nostri occhi e portando il cambiamento climatico tra le priorità dell’agenda politica. Quando si parla di crisi climatica, bisogna anche raccontare i fatti. Se parliamo di “azzerare le emissioni prima del 2050”, dobbiamo renderci conto di quanti cambiamenti comporti, e di cosa vuol dire adottare in pochissimo tempo questa decisione. È quindi importante chiederci: in che tempi accadrà la transizione energetica? Finiremo di bruciare il petrolio quando saranno esaurite le riserve, o quando finiranno le possibilità per la specie umana di intervenire sulla crisi climatica? Raccontare questi dilemmi è difficile, e io personalmente cerco di restituire qualcosa al mio pubblico, evocando un senso di possibilità. Non so se noi siamo l’ultima generazione, ma siamo una generazione con un’enorme responsabilità, e la abbiamo esattamente nell’arco della nostra vita e delle nostre azioni. La transizione, pur essendo troppo lenta e contraddittoria, è in atto, ed è qualcosa che voglio sempre ricordare. La difficoltà del giornalismo sta nel raccontare la crisi senza cadere in un ottimismo sfrenato che può essere molto tossico, ma nemmeno nel catastrofismo totale. 

 

D: Pensi che in Italia sia attiva una coscienza collettiva su temi inerenti al clima? Quali sono le figure chiave che possono determinare l’attivazione e l’azione? 

R: Recentemente è uscita una mappatura delle tribù politiche europee, aggregate in base alle preoccupazioni principali dei cittadini di ogni nazione. Ne emerge che a preoccupare maggiormente gli europei sono: la crisi economica, la crisi del lavoro, l’inflazione e la crisi climatica. In Italia, a differenza di altri paesi, le preoccupazioni economiche superano quelle climatiche. Questo non vuol dire che gli italiani non abbiano paura per il cambiamento climatico, veniamo da un 2023 spaventoso dove abbiamo visto i cambiamenti climatici con i nostri occhi, e resta poco spazio per il negazionismo. Ma, in un paese con altissimi livelli di povertà, la più grande paura resta quella dell’immediato e quando arriva un menù di cambiamenti radicali per la transizione energetica, le persone preferiscono aggrapparsi alle paure del presente. Credo che gli italiani siano consci del cambiamento climatico, ma non abbiano gli strumenti per decodificarlo. Faticano a dire “Okay, c’è un cambiamento in atto che implica paure, ma implica anche opportunità per sbloccare delle gerarchie, e cambiare questo paese”. In Italia abbiamo un attivismo molto forte, da Fridays For Future a Ultima Generazione, con un grande impatto sull’immaginario e sulla discussione pubblica. Ricordiamoci poi che l’Italia aveva, a un certo punto, il movimento di Fridays For Future più grande d’Europa, questa è l’eredità di un paese dove c’è sempre stata una forte società civile e ambientalista. Ma non c’è nessun partito che riesca a tradurre in politica questa grande ed esistente propensione per la cura del territorio e dell’ambiente. Purtroppo, a chi si muove nella politica manca una preparazione di fondo, la classe politica non è ambientalista e non conosce il tema. Inoltre, ci sono tanti soggetti con la possibilità di portare cambiamento, ma che non lo fanno: grandi banche molto esposte con i finanziamenti ai combustibili fossili, aziende energetiche come Eni e Enel. Pensiamo ad Eni, un'azienda partecipata statale che invece di essere controllata dallo Stato, controlla lo Stato facendone addirittura la politica estera ed energetica, e quindi invece di essere attori di cambiamento diventano ostacolo al cambiamento. E per concludere, siamo un paese con poca partecipazione politica, e questo rende difficile affrontare i cambiamenti climatici. 

 

D: Cosa ne pensi dell'attivismo non violento a cui abbiamo assistito nel 2023, per esempio, quello di Ultima Generazione? Credi sia efficace oppure no? 

R: Le azioni di Ultima Generazione hanno avuto un impatto mediatico fortissimo e dimostrano la loro bravura nel manovrare il sistema mediatico, portando questo tema dove prima non c’era nulla. Personalmente, penso che queste azioni siano troppo isolate e che il movimento per il clima Italia sia troppo spaccato. Se le azioni di Ultima Generazione fossero supportate anche da proteste e manifestazioni, perché non tutti se la sentono di farsi arrestare, questo potrebbe creare un fronte congiunto per parlare agli osservatori casuali, non a chi è già mobilitato. La grande sfida è proprio riuscire ad uscire dalla bolla, avvicinandosi a chi non ha una vita politica ma ha bisogno di politici che facciano i suoi interessi, perché anche il clima è una questione politica. Ma io, osservatore casuale, percepisco Ultima Generazione come un gruppo isolato di persone che fa i blocchi stradali, li percepisco un po’ come dei matti. Invece se insieme a queste azioni vedo anche un grande movimento di supporto e di sostegno, percepisco il valore politico delle loro azioni. Così come ora, queste azioni rischiano di trasformarsi in uno spreco umano, perché questi attivisti poi affrontano i processi, il carcere. C’è un dolore umano, un sacrificio che non va perso ma valorizzato. 


D: Credi che “far saltare un oleodotto”, come auspicato da Malm, sia più efficace rispetto all’attivismo nonviolento? 

R: Leggendo il suo libro, ascoltando le sue interviste, penso sempre che il suo grande problema sia essere svedese. Lui è una persona che non capisce quali siano le conseguenze all’interno di una società della violenza. In Italia abbiamo una lunga storia di violenza politica e la nostra storia ci insegna che non esiste violenza politica su cui si possa fare un discorso alto o teorico. Ci sono contesti in cui la violenza ha avuto un effetto nella storia umana. Ma, nel contesto italiano o delle democrazie, la violenza politica su temi ambientali, anche nella forma del sabotaggio, rischia di disperdere il capitale politico e morale accumulato in questi anni. L'industria del fossile non aspetta altro, sono proprio loro a sperare che qualcuno inizi a mettere bombe alle pompe di servizio, per presentarsi alla società come delle vittime delle irrazionalità altrui. E se c'è una cosa che secondo me Malm non capisce è quanto la violenza sia incontrollabile. Lui la racconta come una cosa molto igienica, pulita ed efficiente. Potremmo anche dire che sia immorale ma efficace, eppure in questo caso sarebbe completamente inefficace e ci porterebbe indietro nel dibattito pubblico. 


D: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”, dice Fisher. Tu parli spesso di immaginazione come strumento necessario per affrontare la crisi climatica: hai ancora fiducia nel futuro? Come ti immagini il mondo oltre la transizione ecologica?

R: Ho speranza, ma non so se ho fiducia, quello dipende dalle giornate. Non perdo la speranza, perché è un sentimento attivo e politico, mentre la fiducia e l’ottimismo sono reattivi. Io entro nel mondo dicendo “io voglio essere attivo” e per esserlo devo credere che abbia un senso. La speranza è un sentimento politico molto prezioso, e la coltivo con grande fatica. Il mondo oltre la transizione non riesco a immaginarlo, e questo è parte del problema: noi sappiamo a che società vogliamo rinunciare, ma non sappiamo in che direzione stiamo andando e il discorso sul clima è spesso un discorso fatto in scadenza. La scienza ci dice cosa dobbiamo fare entro un determinato anno, ma non sappiamo cosa ci sarà, per esempio, oltre il 2050. Manca il contributo delle scienze sociali, dell'arte, della letteratura e della politica, e questo richiede un grande sforzo di immaginazione: per cambiare il mondo, dobbiamo sapere verso quale mondo vogliamo andare. Avrebbe un grande significato politico cominciare a immaginare il futuro ed è un invito che faccio a tutti, la spinta della paura l'abbiamo già, ma ci mancano desiderio e immaginazione. Su questo l'attivismo deve impegnarsi molto di più perché devono esserci delle risposte capaci di attirare, pensiamo ai movimenti novecenteschi e alle visioni ben precise che avevano del futuro. Solo così possiamo stimolare un dialogo sull’essenza della nostra vita, sul sistema economico, sugli equilibri tra tempo libero e lavoro, sulla composizione della società che vogliamo. 


D: Prima hai parlato delle spaccature all'interno del movimento ambientalista, pensi che lo stesso discorso sia applicabile anche ai vari movimenti per la giustizia sociale attivi in Italia?

R: I vari movimenti devono parlarsi di più e meglio. Ci sono degli esperimenti che dimostrano la volontà di provarci, protestando insieme. Come nel caso della convergenza fra i movimenti per il clima e il movimento dell'ex GKN a Campi Bisenzio: una fabbrica occupata che sta provando a diventare un modello di transizione. Unire i movimenti sarebbe un metodo prezioso per poter parlare a più persone e dare l'idea a chi è fuori dalla bolla, a chi ha problemi politici ma non ha una vita politica, che un'alternativa che risponde ai nostri bisogni esistenziali esiste. Se c'è qualcuno che mi deve dare una lettura ampia e non ristretta non sono gli ambientalisti o le femministe, ma un unico movimento inclusivo. L’intersezionalità non deve diventare un contenuto evidente ma un metodo. Non posso andare nella società dicendo “io sono un movimento intersezionale”, perché poi le persone mi guardano ma non sanno di cosa io stia parlando. L’intersezionalità deve essere un modo di percepirsi, di dialogare, di fare proprie le cause di qualcun altro, e allo stesso di prendere le mie cause e affidarle a qualcun altro. L’intersezionalità è una bellissima chiave per fare politica e per leggere la realtà, ma non basta solamente dire di essere intersezionali, perché non è un contenuto, ma qualcosa che va messo in pratica. 


D: Come mai gli attivisti ambientalisti non traducono i loro movimenti in un partito politico? Esiste una realtà politica di questo tipo?

R: No, perché a un certo punto i movimenti ambientalisti si sono scontrati con la realtà: dopo tutta l’attivazione fatta negli ultimi anni, arrivano le prime grandi elezioni dalla loro esistenza e vince Meloni, vince un'area culturale politica negazionista. E quindi viene spontaneo chiedersi dove sia finito tutto quello che si è costruito. Al momento ci sono piccoli esperimenti locali di persone che, dall’attivismo per il clima, sono entrate nei consigli comunali. Come nel caso della lista “Brescia Attiva”, arrivata direttamente dalle scuole. Purtroppo, non è ancora un processo sistemico, perché in Italia c'è un grande tappo all'emergere di figure nuove. Questo deriva dal fatto che non si possano esprimere le proprie preferenze, e quindi scegliere le persone. In Italia è inoltre molto difficile costruire un partito da zero. Siamo un paese dove la politica è veloce, dove a un’elezione se ne sussegue velocemente un’altra ancora più importante. Quindi si tratta di dialogare con i partiti, avendo presente la propria identità e provando un po’ a entrarci. Credo che i movimenti climatici debbano provare a dialogare con i partiti e a non averne paura, perché i partiti sono uno strumento di partecipazione pubblica insostituibile. Tra gli attivisti ci sono persone che sono praticamente cresciute nei movimenti climatici e persone che sono molto più preparate della maggior parte dei nostri parlamentari, ed è giusto che possano confrontarsi con la politica. Ci si sta provando ma c’è molta resistenza, i partiti italiani sono gerontocratici, difficili da cambiare, diffidenti. Ma questo lavoro è indispensabile, perché dove ci sono le istituzioni, si possono fare azioni reali. 

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