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cortei palestina
Dicembre 05, 2023
DIRITTI UMANI

Le manifestazioni di massa per la Palestina chiedono un mondo più giusto per tutt3

Approfondimento di Thomas Aureliani, ricercatore universitario

“Free free Palestine! Free free Palestine!”, urla una giovane attivista al corteo di Milano organizzato l’11 novembre 2023 in sostegno al popolo palestinese. Seduta sulle spalle di un uomo, forse suo padre, detta i tempi di decine di manifestanti che la seguono. Ha in mano un microscopico megafono ma scandisce perfettamente lo slogan cardine delle manifestazioni di massa che si stanno susseguendo in tutto il mondo a seguito dell’escalation di violenza nei Territori Occupati da parte di Israele dopo il 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco inaspettato e violento di Hamas che ha provocato 1200 vittime e la cattura di 220 ostaggi israeliani.


A causa dei bombardamenti indiscriminati sulla popolazione e sulle infrastrutture civili di Gaza da parte israeliana sono oltre 14,800 i civili palestinesi uccisi, di cui circa 6 mila sono bambini o bambine; 1,7 milioni sono gli sfollati e oltre 46 mila le unità abitative distrutte nella Striscia di Gaza mentre 2,3 milioni di persone sono senza casa, nel momento in cui scriviamo. Nulla è stato risparmiato del governo di ultradestra di Benjamin Netanyahu che, come dicono i manifestanti, sta rivelando al mondo le sue reali intenzioni: annichilire il popolo palestinese e portare a termine il progetto iniziale del movimento sionista, cioè dare forma ad un grande Israele de-arabizzato (si vedano sul tema i lavori di Ilan Pappé, “The Biggest Prison on Earth. A History of the Occupied Territories”, Oneworld Publications,  2017, “The Ethnic Cleansing of Palestine”, Oneworld Publications, 2006).

L’ondata di morte e repressione del governo israeliano (che si è manifestata anche in Cisgiordania con centinaia di arresti e la complicità dei coloni che hanno aumentato la pressione sui palestinesi con uccisioni e violenze), così come le immagini dilanianti che arrivano dai pochi giornalisti palestinesi ancora vivi a Gaza – dal 7 ottobre al 26 novembre sono morti 57 giornalisti di cui 50 palestinesi, 4 israeliani e 3 libanesi – stanno spingendo nelle piazze di tutto il mondo migliaia di manifestanti. E non solo persone e organizzazioni solidali alla storica causa palestinese ma anche cittadini e cittadine senza trascorsi nella militanza per la liberazione dei Territori Occupati. Di fronte al doppio standard dei media e dei governi occidentali che fanno fatica a riconoscere le responsabilità del governo israeliano si sta sviluppando un grande movimento di protesta transnazionale che, negli ultimi decenni, non si era mai visto, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. Forse solo la mobilitazione contro la guerra in Iraq del 2003 aveva portato tante persone nelle strade.

Da Londra a Washington, da Roma a Bruxelles, da Parigi a Berlino, da New York a Madrid, le piazze occidentali stanno dimostrando una rottura profonda tra l’operato dei governi nazionali (che da subito hanno mostrato appoggio praticamente incondizionato ad Israele, salvo alcune eccezioni) e una consistente parte dell’opinione pubblica europea e nordamericana: scuole e università occupate per chiedere il cessate il fuoco e  la sospensione dei rapporti con le istituzioni israeliane e campagne di raccolta firme (ha avuto molto seguito, ad esempio, l’iniziativa degli accademici italiani che hanno raccolto oltre 4 mila firme); sit-in di protesta di fronte a consolati e ambasciate; lavoratori portuali che bloccano le navi con le armi dirette a Israele; tifosi negli stadi che cantano cori solidali ed espongono bandiere della Palestina; centinaia di eventi divulgativi sulla questione israelo-palestinese e, appunto, tantissime manifestazioni di piazza.

In Italia è stata srotolata un’immensa bandiera palestinese dall’iconica Torre di Pisa. Lo stesso è stato fatto all’Università di Berkely, negli Stati Uniti, mentre a Cambridge è stata proiettata la bandiera palestinese sulla King’s College Chapel. Piazze che uniscono giovani e vecchie generazioni di attivist3 per i diritti civili; gruppi studenteschi; movimenti di lavoratori; militanti dei settori più attivi politicamente ma anche famiglie con bambini e bambine solidali, atei, cristiani, musulmani ed ebrei uniti per chiedere l’immediato cessate il fuoco e una Palestina libera dall’occupazione di Israele. Danno la misura di quanto sta accadendo le vibranti proteste a Washington degli ebrei antisionisti americani che allo slogan “Not in our name” hanno fatto seguire l’occupazione di Capitol Hill, il campidoglio statunitense. Diverse comunità ebraiche pacifiste stanno infatti condannando l’operato del governo israeliano e, richiamando la tragedia dell’Olocausto, ribadiscono “Never again for anyone!”.

Analizzando le proteste dal punto di vista numerico – sia dal punto di vista della quantità di proteste sia da quello delle cifre riguardanti i manifestanti presenti – appare chiara la portata di questa ondata di mobilitazione. Un interessante studio del The Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), un centro di analisi non governativo che elabora dati sulle proteste, ha conteggiato solo nelle prime tre settimane dall’inizio del conflitto almeno 3,700 manifestazioni in supporto alla Palestina su 4,200 manifestazioni globali di protesta riguardanti l’escalation di violenza in corso. Secondo una mappatura di Al Jazeera, già nei primi dieci giorni di attacchi israeliani su Gaza le manifestazioni hanno avuto luogo in diverse città del mondo come Adelaide, Algiers, Amman, Athens, Auckland, Baghdad, Barcelona, Beirut, Berlin, Boston, Braband, Brasilia, Brisbane, Cairo, Calgary, Cambridge, Canberra, Cape Town, Caracas, Colombo, Copenhagen, Dallas, Damascus, Dearborn, Delhi, Dhaka, Doha, Diyarbakir, Dublin, Edinburgh, Edmonton, Geneva, Glasgow, Hyderabad, Islamabad, Istanbul, Jakarta, Karachi, Kargil, Kolkata, Kuala Lumpur, Lahore, London, Los Angles, Lucknow, Male, Manama, Manchester, Marawi City, Melbourne, Mexico City, Milano, Mississauga, Montreal, Mumbai, Nablus, Napoli, New York City, Paris, Pittsburgh, Portland, Pune, Rabat, Rio de Janeiro, Roma, Sanaa, Santiago, Sao Paulo, Seoul, Surakarta, Sydney, Tehran, The Hague, Thiruvananthapuram, Tokyo, Tucson, Torino, Vancouver, Washington DC.   

In quest’ultima si è verificata, il 4 novembre 2023, la più grande manifestazione in sostegno del popolo palestinese della storia degli Stati Uniti, con oltre 300 mila persone che si sono riversate nelle strade della capitale statunitense, mentre Londra, l’11 novembre 2023, ne ha viste allo stesso modo almeno 300 mila sfilare per il centro, anche se gli organizzatori parlano di quasi un milione di persone. Il sabato successivo, il 18 novembre, nell’intero Regno Unito si sono tenute almeno 100 manifestazioni in contemporanea. Interessante notare le principali rivendicazioni attraverso gli slogan, gli striscioni e i cartelloni che hanno colorato di nero, rosso, bianco e verde le strade di tutto il mondo. Attraverso le performance della protesta e i vessilli utilizzati è infatti possibile capire come gli attivisti interpretano ciò che sta accadendo. In primo luogo, vi è un generale assenso rispetto al fatto che le manifestazioni stanno premendo per due principali obiettivi, uno congiunturale – cioè l’immediato cessate il fuoco e la fine dei bombardamenti su Gaza – e una di tipo strutturale legato ad una rivendicazione storica del popolo palestinese, cioè la fine dell’occupazione da parte di Israele e la liberazione della Palestina.

I manifestanti insistono poi sulla necessità di cambiare il vocabolario, sostituendo al termine “guerra” – in cui si presuppone uno scontro più o meno paritario fra gli attori del conflitto – concetti che meglio rappresentano la realtà secondo il loro frame interpretativo, ovvero “genocidio”, “apartheid” e “pulizia etnica”.  In effetti i media soprattutto occidentali e gli stessi governi tendono a riferirsi a ciò che è accaduto dal 7 ottobre in poi come ad una “guerra tra Israele e Hamas” anche quando nei fatti l’azione bellica israeliana si è concentrata anche e soprattutto su obiettivi civili che poco c’entravano con l’obiettivo sbandierato di abbattere il gruppo di Hamas. Come ha sottolineato il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, poi attaccato verbalmente da politici e opinionisti occidentali, l’attacco di Hamas non è avvenuto in un vuoto e occorre analizzare la questione con profondità storica. Ad esempio, mettendo in luce le cifre dell’ufficio ONU per gli affari umanitari: tra il 1° gennaio 2008 e il 6 ottobre 2023 (il giorno prima dell’attacco del gruppo islamista) le vittime palestinesi del conflitto sono state 6.417 mentre quelle israeliane 308, mentre gli sfollati palestinesi a Gaza e in Cisgiordania dal 2008 al 2022 sono 742 mila, secondo l’Internal Displacement Monitoring Center. 

Anche tenendo conto di queste cifre viene difficile non parlare di pulizia etnica come fanno da tempo diversi studiosi anche israeliani come Ilan Pappé, che interpreta chiaramente in questi termini quello che è avvenuto in passato, e sta attualmente accadendo, alla popolazione palestinese (Ilan Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oneworld Publications, 2006).

La paura di un’intensificazione del processo di sfollamento forzato dai propri territori è stata ben evidenziata dalla relatrice speciale dell’Onu per i Territori Occupati Francesca Albanese che ha affermato: “I palestinesi non hanno alcuna zona sicura a Gaza, poiché Israele ha imposto un “assedio totale” sulla piccola enclave, negando illegalmente l’acqua, il cibo, il carburante e l’elettricità”. 

Lo stesso Ministero dell’intelligence israeliano, mediante un suo documento segreto pubblicato dal sito ebraico Mekomit e tradotto in inglese sul profilo Twitter di Wikileaks prospetta e consiglia al governo di attuare in vista de “l’espulsione dei palestinesi di Gaza verso il nord del Sinai, in Egitto”, mentre Netanyahu afferma alla luce del sole che Israele manterrà una “responsabilità generale della sicurezza” su Gaza “per un periodo indefinito”.

Anche per questi motivi, la prospettiva di una “pace asimmetrica” non sembra caratterizzare il frame delle manifestazioni per la Palestina di oggi. I cittadini e le cittadine palestinesi e non palestinesi chiedono giustizia e la fine del regime coloniale israeliano, non chiedono la pace. O meglio, antepongono la libertà della Palestina al raggiungimento di una pace duratura e sincera. Questo non perché i manifestanti non abbiano un sentimento pacifista (anzi il rifiuto della guerra è palese) ma perché sono consci che una pace in queste condizioni significherebbe l’attestazione dello stato di oppressione in cui vivono i palestinesi da ormai troppi anni. Quello che diversi gruppi organizzati vicino alla causa stanno tentando di fare è di collegare la vicenda palestinese ad una lotta più ampia contro il colonialismo, l’oppressione dei popoli e il capitalismo globale estrattivista delle grandi potenze, soprattutto occidentali. Tutte facce della stessa medaglia.

È per questo che i gruppi ecologisti, composti soprattutto da giovani, sono schierati con il popolo palestinese: oltre alle violazioni dei diritti umani e l’ingiustizia sociale, la guerra al popolo palestinese ha esasperato le ingiustizie ambientali nei Territori Occupati. Risorse depredate, terre sottratte o nel migliore dei casi gestite in maniera autoritaria e diseguale da parte della potenza occupante. Acqua inaccessibile o contaminata a Gaza: straziano le immagini dei bambini costretti a bere l’acqua piovana o quella salata del mare, tra l’altro inquinata. 

Attraverso performance creative come cartelloni e mani rosse dipinte come se fossero insanguinate, diversi manifestanti puntano infatti il dito sulle responsabilità dei leader politici degli Stati Uniti e dell’Unione Europea accusati di essere sporchi di sangue, complici del massacro in corso. Sentimento che si è rafforzato a seguito delle procedure di voto del 20 ottobre 2023 per l’immediato cessate il fuoco in seno all’Assemblea Generale dell’ONU, che ha visto passare la risoluzione con 45 astenuti (tra cui l’Italia, la Germania, la Gran Bretagna) e 14 contrari tra cui gli Stati Uniti oltre ovviamente a Israele.

Quello che risulta interessante sottolineare è che la posta in palio di questo conflitto tra le piazze e i governi non sembra essere solamente il cessate il fuoco e la fine delle ostilità, ma anche e soprattutto un’idea di mondo diversa. Un mondo più giusto e decolonizzato, diametralmente opposto da quello costruito dalle potenze globali occidentali, accusate di adottare un doppio standard morale nella valutazione dei grandi fatti della storia contemporanea e una postura estrattivista nei confronti delle popolazioni oppresse, marginalizzate e, come nel caso dei palestinesi, de-umanizzate. 

Quando a Seattle nel 1999 iniziò a prendere forma quello che è stato chiamato Movimento per la Giustizia Globale gli attivisti protestavano per un mondo più equo, per l’ambiente, per i diritti delle donne e per la pace, avanzando una critica profonda alla globalizzazione capitalista rappresentata dalle istituzioni economiche internazionali e dai governi dei paesi del G8, accusati tutti di mancanza di democraticità e trasparenza nelle loro decisioni.

Il motto era “un altro mondo è possibile”, un mondo in cui le esperienze di mobilitazione dal basso e dai luoghi definiti come “Sud globale” potessero avere un peso decisivo. Le proteste di massa in sostegno alla Palestina di oggi dimostrano l’attualità di quel discorso e paiono proprio rappresentare un nuovo volto di quel movimento globale. Le rivendicazioni del popolo palestinese sembrano infatti assurgere a simbolo di una rinnovata voglia di vivere in una società più giusta, in cui i popoli si possano autodeterminare pacificamente rivendicando il loro diritto ad un’esistenza dignitosa. In fondo quello che chiede questa grande mobilitazione di massa in solidarietà del popolo palestinese è questo.

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