Settembre 04, 2024
DIRITTI UMANI
Islam e sinistre occidentali: falsi amici? Risposta a Valerio Renzi
Approfondimento di Youssef Siher, ricercatore
Nel suo pezzo per Iconografie intitolato “Falsi amici”, il giornalista di Fanpage.it Valerio Renzi cerca di fare un’analisi dell’inconsistenza di quella che definisce “alleanza rosso-verde, dove il verde non è quello dell’ecologia ma quello dei Fratelli Musulmani. Un’alleanza che non ha nulla di politico o operativo naturalmente, ma che sta producendo un nuovo discorso politico che è bene discutere a viso aperto”. E allora discutiamone. Di base l’analisi che fa l’autore dell’articolo non è totalmente sbagliata, in quanto personalmente (e come me molte persone arabe musulmane - e non solo - che seguono le vicende post 7 ottobre) condivido le premesse e parte della conclusione, ma non la visione, e soprattutto il giudizio qualitativo, che se ne dà in alcune sue parti. L’analisi di Valerio Renzi presenta varie problematiche e contraddizioni che è bene sviscerare per rendere chiara la visione di chi, contro la propria volontà, si trova “dall’altra parte” (e no, non faccio identity politics, però credo che, in sintonia con le parole del sociologo portoricano Ramón Grosfoguel, le identità subalterne potrebbero servire come punto di partenza epistemico per una critica radicale dei paradigmi e dei modi di pensare prettamente occidentali).
È vero infatti che l’Islam (e non l’islamismo, l’Islam politico, la Fratellanza Musulmana o qualsiasi altra categoria occidentale si voglia applicare all’Islam) e le sinistre occidentali sono, nel caso della questione palestinese, dei falsi amici. Questo perché le sinistre occidentali - e con esse i movimenti emulatori loro affini nel terzo mondo - che non adottano un’idea pienamente radicale di rottura con il sistema occidentale attuale, sono considerate esse stesse parte del problema coloniale da parte di chi porta avanti la lotta anticoloniale palestinese. Ecco perché in pochi in Occidente, il 7 ottobre 2023, riuscivano a concepire - senza se e senza ma - l'Operazione Diluvio al-Aqsa per quello che era: un atto rivoluzionario di decolonizzazione. Ciò che infatti non si riesce ad accettare non è l’atto in sé ma il fatto che quest’atto sia stato compiuto da un movimento di lotta nazionale non ideologicamente affine ai “valori occidentali”. Questo atteggiamento di delegittimazione ideologica della lotta anticoloniale palestinese, che però trova risvolto nella critica mainstream al metodo, è forse l’aspetto più sottile di un più ampio atteggiamento islamofobo e di un approccio occidentalocentrico alla questione palestinese.
Tu condanni Hamas?
L’autore del pezzo parte ovviamente cercando di approfondire la fantomatica domanda “tu condanni Hamas?” la cui risposta, secondo l’autore stesso, “è bene articolare in modo esaustivo. [...] per riuscire a costruire e articolare un discorso coerente”. Renzi spiega infatti che “a questa domanda c’è una risposta che non sarebbe dovuta essere difficile per le sinistre radicali e che in effetti in molti sono riusciti ad articolare (tra cui l’EZLN): condanniamo la strage di civile innocenti e i crimini di guerra compiuti il 7 Ottobre, ma questi sono il risultato del regime di apartheid imposto da Israele, della speranza cancellata per milioni di palestinesi, delle politiche di colonizzazione e della violenza sistematica”. L’autore poi critica chi invece, portando un “punto tutto politico, non morale”, aderisce “maldestramente al progetto politico che l’ha messa in atto”. Ciò che però non viene chiarito è di quale morale si parli. Un errore comune di chi, volente o nolente, vive e guarda il mondo con gli occhi del privilegio è infatti quello di utilizzare la prospettiva del “punto zero” nel descrivere le azioni degli “altri”: è la “visione dell’occhio di Dio” che sempre nasconde la sua prospettiva locale e particolare sotto un universalismo astratto. Nascondendosi infatti dietro ad una teoria della “morale universale”, l’autore cerca di connotare forzatamente l’atto come politicamente sensato ma “moralmente” condannabile. L’autore, quindi, cerca di depotenziare la portata rivoluzionaria dell’atto colpendo non la legittimità dello stesso (come fa il mainstream occidentale), ma di chi lo compie, cioè “al progetto politico che l’ha messa in atto”.
Ciò che bisogna qui chiarire una volta per tutte è che la decolonizzazione è “un processo storico: vale a dire che non può essere capita, né trovare la sua intelligibilità e farsi trasparente a sé stessa, se non nella misura in cui si discerne il movimento storicizzante che le dà forma e contenuto”. La decolonizzazione è infatti una rottura dello status quo della sottomissione delle masse indigene razzializzate, e quindi disumanizzate, a beneficio della classe coloniale. È un processo che implica necessariamente sconvolgimenti, disordini sociali e conflitti, aprendo la strada a un nuovo ordine sociale e politico che riflette le aspirazioni e i valori delle persone liberate. L’Operazione Diluvio al-Aqsa è, in questo senso, un atto di liberazione - parte del più ampio processo di decolonizzazione - in cui i combattenti della resistenza palestinese di Gaza si liberarono dal campo di concentramento in cui erano confinati.
Tutti loro uscivano dalla prigione toccando, per la prima volta nelle proprie vite, la loro terra ancestrale di cui avevano solamente sentito parlare nei racconti dei nonni. Prima di essere parte di un “progetto politico” questi soggetti sono dei colonizzati e sono quindi da considerarsi come tali. I colonizzati sono, secondo lo psichiatra franco-caraibico Franz Fanon, il prodotto della violenza, essendo quest’ultima la struttura portante dell’intero sistema coloniale. Tuttavia, questo processo di iniziazione alla violenza non agisce solo come un meccanismo di controllo collettivo; esso rappresenta anche un accumulo di energie che, in determinate circostanze, possono essere convertite, trasformando la violenza in uno strumento di resistenza e riconfigurando il colonizzato in un rivoluzionario.
L’autore procede quindi nel tentativo di sminuire il fatto che la questione palestinese sia da considerarsi una questione prettamente coloniale. Egli, esplicitando una posizione generalmente definita come post-sionista, considera come fatto storico concluso - e quindi in qualche modo legittimo - l’occupazione coloniale sionista del 1948, ponendo come problema principale allo smantellamento della colonia d’insediamento sionista i coloni in essa presenti in quanto “la maggior parte dei cittadini israeliani ormai non ha scelto di vivere in Israele, non è emigrata, c’è nata”. La domanda che però l’autore dell’analisi non si pone è la seguente: perché non viene riconosciuto il diritto al ritorno ai palestinesi nativi in queste terre e ai loro discendenti?
Accettare lo Stato di Israele come fatto storico indiscutibile vuol dire automaticamente negare a questi 7 milioni di palestinesi profughi un loro diritto inscindibile dalla lotta anticoloniale. La creazione dello Stato di Israele poggia infatti proprio sulla pulizia etnica dell’intera Palestina, strumento che è risultato fondamentale per l’esistenza dell’entità coloniale in quanto con esso si risolve il problema principale del progetto sionista: la questione della maggioranza demografica della popolazione ebraica su quella araba all’interno dei confini controllati. Ed è solo così che si comprende l’errore di fondo dell’autore: i palestinesi che muoiono o che sono esiliati sono vittime di questioni politiche, gli israeliani vittime e basta. La morte e l’espulsione dei primi è condannabile solo nella misura della condanna alle politiche di questo o quell’altro governo sionista. La morte dei secondi è condannabile sempre, non importa per quale motivo. In questo modo si applica la “morale” solo ai secondi, concepiti pienamente come esseri umani. Soprattutto non si considerano vittime del colonialismo sionista tutti i palestinesi della diaspora, perennemente esiliati dalla propria terra ancestrale.
L’Islam, il grande incubo dell’Occidente
Altro errore importante che l’autore del pezzo fa, in contraddizione con alcune parti della sua stessa analisi, è quello di considerare “gli islamisti”, ovviamente con un’accezione prettamente negativa, come un tutt’uno indivisibile. Infatti l’autore giustamente spiega che uno degli errori più comuni è quello secondo cui “gli stessi soggetti che producono le identity politics in molti casi sono disponibili ad assumere in modo acritico il punto di vista dei soggetti politici arabi e palestinesi che arrivano qui da noi”. Quello che si nota però è che l’autore stesso del giudizio poc’anzi riportato finisca ironicamente per usare lo stesso strumento che critica nel momento in cui si pone la seguente domanda: “Come si può pensare ad Hamas come a un movimento anticoloniale, senza inserirlo nel quadro di rapporti non solo con l’Iran, ma con una potenza regionale come la Turchia di Erdogan, con Bashar al-Assad in Siria e con le petro-monarchie del golfo?”. In questo modo l’autore intenzionalmente considera, sulla scia della teoria dello scontro delle civiltà, che c’è un “noi” e un “loro” che non possono coesistere: cioè la civiltà occidentale e quella islamica.
E sapete cosa? Se messo in questi termini concordo con la sua considerazione, e spiego subito il perché. Convengo infatti con l’assunto che ci sia un “noi” e un “loro”: in questo “sistema-mondo capitalistico/patriarcale occidentalocentrico/cristiano-centrico moderno/coloniale” esiste infatti un’imposizione coloniale eurocentrica (noi) su tutti i popoli subalterni (loro). Questa condizione del sistema-mondo non è un fatto oggettivo (come vorrebbe l’autore in accordo con la visione del politologo statunitense Samuel Huntington, teorico dello scontro delle civiltà) ma una forzatura prettamente occidentale nelle modalità di approccio all’altro. Ed è solo così che si è in grado di capire che quello che l’Occidente (e con esso le sue sinistre succursali nei paesi del terzo mondo) non riesce ad accettare è il fatto di non avere un ruolo - né politico, né ideologico - nel processo di decolonizzazione della Palestina e che anzi questo processo mina le stesse fondamenta su cui ha basato l’intera civiltà moderna/coloniale. E perché succede questo con il caso palestinese? La risposta è semplice: islamofobia, nel vero senso della parola. L’Islam è infatti il grande incubo dell’Occidente e, con esso, del sistema capitalista-coloniale su cui ha costruito la sua egemonia a livello mondiale. “Come si fa a non trovare una contraddizione tra l’esaltare le milizie filo-iraniane e scendere in piazza urlando ‘donna, vita, libertà’?” si chiede retoricamente l’autore, ponendo la questione a chi popola le piazze palestinesi. Infatti la contraddizione c’è nella misura in cui le donne occidentali non possono imporre le loro idee di liberazione alle donne musulmane. Così come non si possono imporre le idee di democrazia occidentale o di liberazione ai popoli non occidentali.
In questo momento storico i popoli subalterni stanno riscoprendo, tramite un difficilissimo processo di decolonizzazione del pensiero, strumenti e metodologie nuove per la costruzione di epistemologie che attingono dalla loro storia e cultura. Uno di questi elementi è proprio l’Islam, centrale nella teorizzazione della lotta anticoloniale palestinese e nella concettualizzazione della rivoluzione popolare contro i regimi arabi. Solo in questo senso la conclusione di Valerio Renzi sembra reggere: “L’alleanza immaginaria tra alcuni settori della sinistra o dell’internet left con gli islamisti, rischia infine di avere scarso successo, e di nuocere prima di tutto alla capacità mobilitativa della società civile”. Questa conclusione è vera nel momento in cui, tenendo a mente le premesse finora da me riportate, capiamo che la contraddizione non sta nel movimento di liberazione palestinese. È il socialismo ad aver perso, nella lotta anti-coloniale palestinese e in quella decoloniale dei popoli subalterni, il suo ruolo come matrice rivoluzionaria per la liberazione nazionale e dei popoli oppressi. Le sinistre occidentali, in preda all’isteria della ricerca di una qualche posizione all’interno del movimento di liberazione palestinese, si trovano quindi nella difficile posizione di dover abdicare molte proprie posizioni ideologiche, dimostrando un vuoto esistenziale che le porterà inevitabilmente all’implosione se non si assumeranno l’arduo compito di decolonizzare le proprie analisi storiche superando i loro intrinseci limiti eurocentrici.