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Ottobre 11, 2021
DIRITTI UMANI

CAMBIARE LE PAROLE: DIRITTI, OCCUPAZIONE E COLONIALISMO PER PARLARE DI ISRAELE E DI PALESTINA

Approfondimento di Sara Manisera, FADA Collective

Se la retorica internazionale nei confronti di Palestina e Israele, spesso appiattita su posizioni ideologiche poco costruttive, quest'anno è cambiata lo si deve senz'altro a due fratelli attivisti. Mohammed e Muna El-Kurd, attraverso post online, apparizioni nei media e la loro voce, hanno fornito al mondo una finestra sulla vita sotto occupazione a Gerusalemme Est, al punto tale che la prestigiosa rivista Times li ha inseriti nelle 100 personalità più influenti del 2021. Perché la loro storia e la loro voce ha avuto un impatto? Perché sono stati in grado di cambiare la narrazione, troppo spesso stereotipata, che dipinge i palestinesi come violenti e terroristi. E perché hanno riportato al centro parole fondamentali, come la violazione dei diritti, l'occupazione illegale e il colonialismo portato avanti dal governo di Israele. 

Ma facciamo un passo indietro. Per più di un decennio, la famiglia El-Kurd insieme a decine di loro vicini nel quartiere di Sheikh Jarrah, un quartiere palestinese a Gerusalemme Est ha lottato contro la possibilità di rimozione forzata dalle loro case da parte dei coloni israeliani. A maggio, le tensioni a Sheikh Jarrah si sono riversate nella vicina Città Vecchia, dove le forze israeliane hanno attaccato i fedeli riuniti nel mese sacro del Ramadan alla moschea al-Aqsa; i militanti di Hamas a Gaza hanno risposto con il lancio di razzi su Israele. Mohammed e Muna El-Kurd - che sono stati temporaneamente detenuti dalle autorità israeliane quest'estate - hanno sfidato le narrazioni esistenti sulla resistenza palestinese attraverso post virali e interviste, umanizzando le esperienze dei loro vicini e respingendo i suggerimenti che la violenza sia stata condotta prevalentemente dai palestinesi. Carismatici e audaci, sono diventati le voci più riconoscibili di coloro che rischiano di perdere le loro case a Sheikh Jarrah. In numerosi media italiani e internazionali, tuttavia, le parole utilizzate hanno ridotto la portata del fenomeno, impedendo di identificare le reali responsabilità, né di comprendere le realtà storiche che hanno portato a tale situazione. L'utilizzo di parole come "battaglia", "scontri", "sfratti", "area contesa" ha di fatto manipolato la realtà, riducendo l'ennesimo tentativo di occupazione da parte del governo di Israele a un conflitto tra "pari", a "incidenti tra polizia e arabi", a "una disputa catastale". 

Come scrive Cecilia dalla Negra, in uno splendido articolo pubblicato su Orient XXI, con questa narrazione "scompaiono le discriminazioni strutturali a cui è sottoposta la comunità palestinese residente in Israele dal 1948, la cui espressione di dissenso viene velatamente sovrapposta al lancio di razzi da parte di Hamas.  (...). Il sistematico ricorso ad un linguaggio bellico, così come la narrazione costruita intorno al concetto di "guerra", è profondamente - ed intenzionalmente - fuorviante. Non solo perché cela la totale asimmetria di forze in campo, ma perché rimuove consapevolmente il contesto coloniale nel quale quello scontro avviene". 

E sono proprio le parole di Mohammed El Kurd a specificarlo meglio. "Non sono sfratti: non abbiamo smesso di pagare l'affitto. Queste case ci appartengono e ci vengono tolte con la forza". Da decenni, la politica del governo israeliano, infatti, ha come obiettivo quello di espellere le famiglie palestinesi che abitano a Gerusalemme per ottenere un controllo urbanistico e politico della città, per togliere gli spazi ai palestinesi e per portare a termine ciò che gli esperti definiscono la "De-arabizzazione dello spazio urbano" di Gerusalemme. 

Il problema centrale della narrazione costruita su Palestina e Israele è non considerare quasi mai il contesto di occupazione israeliana, dal 1948 al 1967, fino ai giorni nostri e non considerare quasi mai le risoluzioni delle Nazioni Unite su questi argomenti. Se osserviamo le recenti risoluzioni dell'ONU, come la 2334 del 2016, il Consiglio di Sicurezza ha riaffermato la non validità degli insediamenti israeliani perché essi costituiscono una violazione delle leggi internazionali. Secondo Paola Caridi, giornalista, storica e una delle più importanti esperte di Medio Oriente, "la narrazione su Israele e Palestina è sempre più parziale". In un'intervista rilasciata al giornalista Angelo Boccato su Media Diversity, Caridi spiega che "la mancanza di complessità e l'ignoranza di alcuni giornalisti creano un contesto dove non è possibile leggere ciò che accade perché manca la conoscenza della grammatica di Gerusalemme e del 'vocabolario' di ciò che vi si svolge. Per scrivere di Sheikh Jarrah, bisogna conoscere gli sviluppi che hanno avuto luogo nella città negli ultimi dodici anni e capire dove si trova". 

Capire dove si trova significa, anche, comprendere che la realtà palestinese e il popolo palestinese non sono un blocco monolitico, anzi. I palestinesi non sono Hamas, né rappresentano la leadership dei loro partiti. I palestinesi sono donne e uomini che abitano in spazi frammentati - Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme, campi profughi, la diaspora- con diverse gerarchie interne, come risultato di una politica coloniale di occupazione che ha come obiettivo quello di dividere il popolo palestinese. Al tempo stesso, bisogna riconoscere che gli israeliani non sono un blocco unico fatto unicamente da ortodossi di estrema destra. All'interno di queste sfumature e di questa doverosa complessità dei luoghi e delle storie delle persone, tuttavia, non si può appiattire la narrazione e raccontare ciò che accade come se fosse una "partita tra uguali". Lo spiega Mahmoud Muna, scrittore e militante palestinese dal suo profilo fb, ripreso da Independent e tradotto da Orient XXI. "La società israeliana e il suo establishment politico sono profondamente irrequieti, ma rifiutano di vedere che l'occupazione militare, qui, è il vero problema. In effetti, per noi l'occupazione è il principale ostacolo alla liberazione e alla libertà. Ne abbiamo abbastanza, e non possiamo continuare a fare gli psichiatri per la società israeliana. Noi siamo gli occupati, non gli occupanti; gli oppressi, non gli oppressori. Noi siamo i colonizzati, non i colonizzatori. Per il bene di tutti coloro che vivono "tra il fiume e il mare", bisogna porre fine a questa occupazione. È durata già abbastanza". 

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