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Francesca Albanese
Luglio 15, 2023
DECOLONIZING NARRATIVE

Decolonizzare la Palestina: il doppio standard del diritto internazionale

La voce di Francesca Albanese, intervistata da Sara Maniera e Michela Grasso

Decolonizing Narrative è un ciclo di seminari ed eventi pubblici sulla libertà di espressione, i diritti umani, il giornalismo di interesse pubblico organizzato da Voice Over Foundation. L’obiettivo è sostenere nuovi percorsi di narrazione e di approfondimento che mettano al centro i diritti e le storie delle persone. 

Intervista a Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Occupati della Palestina.


D: Puoi presentarti? Qual è stato il tuo percorso di studio e lavorativo che ti ha portato alla posizione che ricopri oggi? Ci dici cosa fai e che cosa vuol dire essere Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati? 

R: Mi chiamo Francesca Albanese, giurista di formazione e professione e in questo momento ricopro il ruolo di Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per il Territorio Palestinese Occupato da Israele dal 1967, quindi la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est. Questo mandato mi è stato conferito dalle Nazioni Unite in qualità di esperto indipendente. Il Consiglio dei Diritti Umani conferisce tali mandati ad una persona in virtù delle proprie conoscenze specifiche su un tema o su una regione del mondo chiedendole di fare dei rapporti annuali all'Assemblea Generale e al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani su quel tema, ad esempio la libertà di espressione, la prevenzione della tortura, la protezione dei difensori dei diritti umani oppure su determinate aree del mondo. Il mio incarico prevede la responsabilità di relazionare sulle violazioni del diritto internazionale che hanno luogo nel ‘territorio palestinese occupato’ (uso il singolare perché quella è una parte unitaria di ciò che rimane della Palestina mandataria, pre-1948). Io sono onorata di essere la prima relatrice donna in trent’anni di esistenza di questo mandato. Sin dall’inizio ho deciso di dare un profilo pubblico a questa figura, portandone i contenuti, le analisi e le raccomandazioni anche fuori dalle Nazioni Unite, per renderli accessibili ad un pubblico di non soli ‘addetti ai lavori’. Questo perché i diritti umani e le loro violazioni sono una questione che riguarda tutti. Per quanto riguarda la mia formazione mi sono laureata in giurisprudenza, ​​specializzata in diritti umani, ho lavorato nell’ambito della protezione internazionale in diversi paesi del medio oriente e nello specifico nelle aree i cui ancora vivono molti dei rifugiati palestinesi sfollati da Israele dal 1948. Dal momento che questo è un mandato non pagato, il mio lavoro principale é per un’organizzazione non governativa araba (ARDD) che si occupa di rifugiati e migranti, e collaboro con una serie di università insegnando temi legati alla questione palestinese, i rifugiati e i diritti umani. In qualità di Relatrice speciale ho il dovere di documentarmi e rimanere aggiornata su ciò che succede. Seguo casi individuali e segnalazioni di violazioni che i palestinesi subiscono direttamente o indirettamente dall’occupazione di Israele, ma anche per mano delle autorità palestinesi. Io cerco di interagire con le autorità israeliane che però non si interfacciano con il mio mandato. Inoltre i relatori dovrebbero scrivere i rapporti dopo aver visitato il territorio di loro competenza, ma dal 2007 Israele impedisce l’ingresso a chi ricopre questo incarico. Questa é una violazione dei propri obblighi come parte del sistema Nazioni Unite che prevedono la cooperazione per il buon funzionamento del sistema, senza eccezioni.


D: Qual è il quadro dal punto di vista del diritto internazionale della situazione dei palestinesi? Dall’occupazione all’apartheid. In che stato vivono oggi i palestinesi? Qual è la loro condizione di vita quotidiana? Si può parlare di un vero e proprio apartheid? 

R: Si tratta a tutti gli effetti di apartheid. Semplificando: la storia inizia ovviamente 75 anni fa quando la comunità internazionale, in seguito alla Shoah, decide di sostenere il progetto di creazione di uno Stato per il popolo ebraico in Palestina. Solo che lì c’erano altre persone (a maggioranza, non ebree) e in questo processo ci sono stati massacri, villaggi distrutti, donne, uomini e bambini costretti alla fuga. L’80% della popolazione, ovvero 750.000 arabi di Palestina (musulmani e cristiani), sono diventati rifugiati e hanno perso tutto quello che avevano (agli ebrei di Palestina sfollati a seguito delle violenze che hanno accompagnato la nascita dello Stato di Israele fu presto concesso di ‘ritornare’ nel neo-costituito Stato di Israele). Per i Palestinesi (o Arabi di Palestina) c'è stato a tutti gli effetti lo sgretolamento di una patria: ecco cos’è la Nakba. Le Nazioni Unite nel 1947 proposero di dividere in due il territorio: 55% allo Stato ebraico e il 45% agli arabi che, già nel 1949, dopo le linee di armistizio, divenne il 22%. Per questo io parlo del territorio palestinese occupato come di “quello che resta della Palestina mandataria”. Nel 1967 Israele invase questo territorio in cui da 56 anni vige la legge marziale, cioè l’esercito israeliano fa le leggi militari, che applica e secondo le quali giudica i palestinesi. In tutti questi anni, Israele ha facilitato il trasferimento di ebrei israeliani ma anche di provenienza dagli Stati Uniti, Europa, Russia in questo territorio occupato. Oggi ci sono 720 mila coloni in 270 colonie. La realtà vissuta dai palestinesi sotto occupazione è fatta di confisca delle terre, di espropri forzati, di violenza contro uomini, donne e bambini. Questa occupazione così violenta è incompatibile con il diritto internazionale, è un vero e proprio apartheid, conseguenza di un’occupazione che per sua natura è coloniale. E come è stato il colonialismo in Algeria, con gli aborigeni in Australia, Stati Uniti o altrove, anche in Palestina è un colonialismo di insediamento. Il fatto che gli ebrei abbiano dei forti legami religiosi e spirituali con quella terra e dei luoghi specifici nel territorio palestinese va riconosciuto, ma non dà diritto a scacciare e depredare la popolazione sotto occupazione (che va infatti protetta ai sensi del diritto internazionale).


D: Chi critica le misure del governo e dell’esercito israeliano si vede spesso rivolgere l’accusa di antisemitismo. A te è mai successo? Come se ne esce?

R: Non passa giorno senza ricevere accuse e minacce nei miei confronti o verso la mia famiglia. E più ci si espone, più si viene attaccati. Ma non bisogna lasciarsi intimorire. Chi si occupa di diritti umani sa, per certi versi, di “portare una croce”. Si sa che questo non è un lavoro facile però lo si fa per garantire un presente e futuro migliori a tutti e tutte. L'antisemitismo, così come l'islamofobia e il razzismo esistono e sono cose reali che non vanno assolutamente minimizzate. Ciò che succede, però, è che da una decina d'anni, si utilizza l'antisemitismo e la lotta all'antisemitismo per giustificare, coprire e impedire la critica legittima allo Stato di Israele per quello che fa nel proprio territorio e nel territorio che occupa su cui non ha nessuna sovranità. Quindi, qualsiasi critica allo Stato di Israele diventa antisemita. Perché non bisognerebbe criticare uno Stato che occupa da 56 anni un territorio dove le persone nascono in cattività? Il rapporto recentemente pubblicato dall’organizzazione ELSC - European Legal Support Center - ha messo in evidenza come persone europee o non, ebree o non, palestinesi di seconda o terza generazione vengano silenziati, vilipesi, minacciati di perdere il posto di lavoro per la propria missione di solidarietà nei confronti del popolo palestinese. La libertà di espressione è uno dei fondamenti delle democrazie occidentali ed è oggi messo in pericolo nei luoghi di dibattito pubblico, dalle università ai media, perché non si può criticare Israele. 


D: Media e rappresentazione. In Italia assistiamo a una narrazione polarizzante, divisiva che dipinge il popolo palestinese come se fosse un popolo interamente di terroristi. Quando si parla di Palestina e di Israele si tende a metterli sullo stesso piano come se occupanti e occupati potessero essere raccontati in modo equidistante. Al contrario, altrove, pensiamo in Ucraina il racconto avviene in modo diverso. Due pesi e due misure diverse? Perché? 

R: Fino a 30-40 anni fa era normale parlare di Palestina nel contesto dei movimenti nazionali di liberazione dal colonialismo come in Sudafrica, Algeria, Congo o altrove. A partire dal processo di pace di Oslo del 1990 tutto è cambiato. Gli Stati si sono completamente defilati dall'impegno sulle questioni giuridiche di fondo e si sono accontentati di dire che Israele stava negoziando con i palestinesi quando, in realtà, i palestinesi stavano completamente perdendo lo spazio per avanzare le proprie istanze e quindi è rimasta questa situazione iniqua di occupante e occupato, colonizzatore e colonizzato. La politica fa incessantemente richiamo ai negoziati tra palestinesi e israeliani come unica soluzione possibile. Ma questo ha dei limiti importanti. La quarta Convenzione di Ginevra prevede che un accordo concluso tra le parti non può violare né limitare i diritti conferiti alla popolazione protetta dalla Convenzione stessa. Questo è il contesto. E in questa situazione, media e politici hanno le loro responsabilità, perché a differenza di 30 o 40 anni fa, la Palestina non viene più raccontata per come è. Questo è accaduto anche perché dal 2001 si è diffusa una fiammata di islamofobia in tutto l’occidente. E in questa narrazione distorta Israele difenderebbe i valori liberali dell’occidente mentre i palestinesi sono gli irredentisti e i “terroristi”. Nonostante questa narrazione, tuttavia, la questione palestinese resta ancora importante nel cuore delle persone e della società civile. Ed è per questo che è importante parlare ai giovani di Palestina perché i palestinesi lottano per i diritti civili, economici, politici, sociali e culturali. Questa è la Palestina di oggi, questo è ciò che vogliono i palestinesi e che significa innanzitutto libertà. Ma ripeto: c'è ancora molto lavoro da fare per riguadagnare lo spazio dell'opinione pubblica e rendere la stampa responsabile e non mera propaganda. Per quanto riguarda l’invasione dell’Ucraina, possiamo dire che questa guerra ha dimostrato quanto la mentalità di certi paesi europei, che si riflette poi nelle politiche dell’Unione, sia ancora impregnata di quello spirito discriminatorio e razzista che ha permesso il colonialismo perché mentre si accoglievano giustamente le persone in fuga dall’Ucraina, si lasciavano morire altre persone lungo la rotta balcanica o nel Mediterraneo. La guerra in Ucraina, inoltre, ha chiarito quanto il mondo occidentale sia capace di applicare il diritto internazionale nei suoi elementi essenziali. In questo caso si è trattata di un’aggressione, di una guerra di occupazione e si sono prese le misure radicali a livello diplomatico, economico e politico per arginare uno Stato che ha commesso delle gravi violazioni del diritto internazionale. Ciò però non accade nei confronti di Israele che da oltre 56 anni occupa il territorio palestinese, impedendo ai palestinesi di esercitare il diritto all’autodeterminazione e di vedersi garantiti i pieni diritti. E questo ci dimostra ancora una volta il doppio standard degli Stati che utilizzano il diritto internazionale, uno strumento neutro, per perseguire interessi geopolitici piuttosto che umanitari. 


D: Quali sono i prossimi passi per il tuo futuro con il tuo incarico? 

R: Come Relatrice, sto cercando di portare avanti una discussione sul diritto all’autodeterminazione dei palestinesi e al tempo stesso sulla matrice coloniale dell’apartheid portato avanti da Israele. Se non si comprende e discute di questo, difficilmente le cose possono cambiare. Quindi partiamo dalla decolonizzazione della Palestina. Sto continuando a lavorare sulla privazione arbitraria della libertà personale perché migliaia di palestinesi sono in carcere in questo momento e continuano ad essere arrestati senza processo, né capo d’accusa e giudicati da corti militari. Nei prossimi rapporti, vorrei concentrarmi sul ruolo delle imprese private, i fondi pensione, banche e investimenti finanziari per capire quanto il settore privato contribuisca a questa occupazione. L’aspetto economico è quello di cui nessuno vuole parlare ma dimostra ancora una volta dove l’occidente riponga i propri valori. Dobbiamo avere la capacità di riconoscere l’altro come uguale nella diversità, e portatore dei nostri stessi diritti. Quindi penso che il mio compito sia quello di aiutare il processo di decolonizzazione che assoggetta il popolo palestinese attraverso la decolonizzazione della narrativa imperante e dell’uso che si fa del diritto internazionale. 


Photo credits: Giacomo Fausti. 


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