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Muslim Sisters
Novembre 21, 2022
BLACKNESS

Non vogliamo far cambiare idea alle persone ma vogliamo portare auto-rappresentazione

Le voci di Kawtar Faik e Aicha Traore, intervistate da Sara Manisera, FADA Collective

Blackn[è]ss fest è il primo festival in Italia che propone una rielaborazione dell'universo afrodiscendente. Eventi e tavole rotonde per riflettere sul concetto di nerezza, secondo un percorso di decolonizzazione del linguaggio e per discutere di temi come gli effetti sulla salute mentale della profilazione razziale, la discriminazione, il razzismo ma anche la musica, il cinema, i media e la rappresentazione. 

Voice Over Foundation ha scelto di accompagnare il festival in questo percorso e di raccontarlo per tutto l'anno, attraverso le voci di chi ne è protagonista.

Intervista a Kawtar Faik e Aicha Traore, co-fondatrici di Your Muslim Sisters Chitchat, primo podcast per musulmani e non, creato da italiane velate. 

 

D: Come vi chiamate? Ci potete dire chi siete e cosa fate? 

Aicha: Sono Aicha, ho 25 anni, mi sono laureata in ostetricia e da un paio di anni mi sono trasferita a Londra dove lavoro come ostetrica e di origine, sono del Costa d'Avorio, se qualcuno se lo chiedesse (ride). 

Kawtar: Io sono Kawtar, ho 25 anni, sono della provincia di Vicenza, ho studiato all'università di Padova ortottica e assistenza oftalmologica e oggi vivo a Udine dove lavoro da quasi due anni. Sono originaria del Marocco. 


D: Come è nato il progetto Your Muslim Sisters Chitchat e perché è nato? 

Kawtar: Io e Aicha abbiamo studiato insieme alle superiori e molte volte ci siamo confrontate sull'esigenza di fare qualcosa per la comunità, in particolare per dare voce alle seconde generazioni. Nel 2020, durante la pandemia, abbiamo deciso di lanciare il podcast per trasformare in qualcosa di concreto la nostra idea ed al contempo è nata la pagina Instagram per condividere le chiacchierate e diversi altri contenuti. Da questa iniziativa abbiamo invitato persone, ospiti e abbiamo creato questa comunità virtuale. 


D: Ci sono stati dei risultati inaspettati da questo podcast? 

Aicha: Penso che arrivino soprattutto dai feedback delle persone. Una volta una signora ci ha scritto dicendoci di aver ritenuto in passato l'hijab come un'imposizione e tramite i nostri podcast aver poi maturato una sua comprensione empatica dal punto di vista altrui. Noi non abbiamo l'obiettivo di far cambiare idea alle persone, vogliamo portare auto-rappresentazione di chi siamo e poi ognuno ci riflette su. Oppure, un'altra volta, una ragazza ci ha contattate dicendoci che in sede di lezione universitaria siamo state citate come fonte. Sono risultati a cui non miravamo ma che ci rendono fiere. 


D: La necessità dell'auto-rappresentazione deriva dal fatto che nei media, soprattutto tradizionali, mancano spazi di reale rappresentazione? È così? 

Aicha: Nei media tradizionali mancano queste voci e manca il racconto diretto dei protagonisti. Quando si racconta l'altro, senza conoscerlo, c'è un deficit di narrazione, perché è difficile rappresentare a pieno le diverse sfumature di un punto di vista senza insight.

Kawtar: Quando sei tu a raccontarti, mostri la tua persona, senza filtri. 


D: Quali sono gli stereotipi più diffusi sulle persone di fede musulmana? 

Kawtar: Si tende sempre a pensare che la famiglia musulmana sia più chiusa, più conservatrice e che la donna sia considerata in modo inferiore, subordinata. Viceversa, si pensa che l'islam sia una religione non aperta, anche se, in realtà, è una religione che accoglie.  

Aicha: Ci sono tante famiglie di fede musulmana dove la donna è messa in secondo piano e dove c'è un forte patriarcato, ciò non è legato alla religione ma al retaggio culturale dei paesi d'origine dei genitori di queste seconde generazioni. Ho incontrato ragazzi italiani, autoctoni al 100%, da generazioni italiani, che hanno una mentalità altrettanto conservatrice. Nessuno direbbe "è associato al loro cristianesimo o alla loro religione". Purtroppo, spesso valori culturali vengono fatti passare per religiosi, anche quando non hanno niente a che vedere con i dettami della religione, anzi! La comunità culturale viene troppo spesso scambiata per la comunità religiosa. Un altro grande stereotipo è pensare che tutti gli arabi siano musulmani. Non mi stancherò mai di ripeterlo: nella comunità musulmana mondiale, la Umma, gli arabi sono il 20%. Il musulmano medio tipico, se dovessimo raffigurarlo, sarebbe una persona che viene dall'Indonesia o dalla Malesia. 


D: Per una donna italiana musulmana che vuole impegnarsi è difficilissimo, specialmente quando la donna indossa il velo. Nonostante ciò, ho visto in questi anni un grande attivismo tra le donne, a livello sociale, politico e culturale - da voi, passando a Marwa Mahmoud, a Sumaya Abdel Qader a Asmae Dachan, solo per citarne alcune. Perché? Perché c'è tanta voglia di riscattarsi e di essere protagoniste, di esserci, di prendersi lo spazio pubblico. È così? 

Kawtar: Si, anche se non sono d'accordo sulla parola "riscattarsi" perché sembra che prima eravamo bloccate o limitate. La definirei più come una voglia di auto affermarsi perché la società italiana di adesso non è la società di vent'anni fa ma è una società che sta cambiando dove ci sono tante persone che vogliono autodeterminarsi, affermarsi e raccontare la propria esperienza perché ogni vissuto è diverso da un altro. 

Aicha: Penso sia una questione di tempo, la nostra generazione è dovuta letteralmente crescere per disporre degli strumenti per dialogare e auto rappresentarsi. Venti o venticinque anni fa, non c'era quasi nessuno di seconda generazione e quindi personalità come Sumaya si trovavano isolate, mentre oggi ci sono tanti nuovi italiani attivi in diversi campi, dal fumetto alla medicina, dal giornalismo alla moda, dall'arte alla musica. 


D: Tanti giovani lasciano l'Italia per mancanza di opportunità lavorative. Tra questi, c'è una percentuale delle cosiddette "seconde generazioni" che sceglie di andare via per blocchi nella carriera, pregiudizi che si trovano davanti. È così? 

Aicha: Sono d'accordo e diverse sono le motivazioni. Molti scelgono di andare via per una questione economica, come d'altronde tanti giovani che non fanno parte di una minoranza ma che fanno fatica ad immaginarsi un futuro in Italia. A questo si aggiunge anche la competizione nel mondo del lavoro: già è difficile trovare lavoro, poi se vieni anche discriminato per l'aspetto o per segni visibili della fede, la difficoltà aumenta. Molti vanno via per una questione di identità perché non si sentono liberi. In Italia, se volessi vestirmi in un certo modo, so che attirerei l'attenzione, ed il mio professare pubblicamente sarebbe sempre accompagnato da un "scusa se ti disturbo". Ognuno percepisce esperienze di razzismo e discriminazione diverse qui in Italia. C'è chi le affronta meglio, chi peggio e quindi per una questione di salute mentale preferisce andar via. Ovviamente c'é chi vuole andare all'estero anche solo per fare un'esperienza. 

Kawtar: Io ho scelto di restare, volevo provare a fare un'esperienza all'estero ma sempre con l'idea di tornare perché l'Italia per me è l'Italia. Capisco, ovviamente, la difficoltà per una persona che appartiene alla minoranza di trovare lavoro in Italia. Dipende dal contesto, dalla zona, dal tuo destino e dalla fortuna. C'è chi si ritrova circondato da persone che hanno una "buona" mentalità ma ci sono anche persone che sono più chiuse. Sono tanti i fattori da considerare. 

Aicha: Io sono emigrata per una questione economica e tornerei oggi stesso in Italia se ci fosse un'opportunità dignitosa. Ma non nascondo che dal punto di vista religioso, qui a Londra mi sento più tranquilla perché è una città multiculturale, multietnica, multireligiosa. Anche solo il fatto che durante il lavoro tu possa impiegare la tua pausa per pregare, senza che ciò desti curiosità o inquietudine morbosa e hai una stanza per farlo, in Italia non esiste. Qui invece è normalizzato. Oppure anche sull'abbigliamento; oggi esco in jeans, domani con l'abaya perché mi è più comoda... Non ti viene fatto pesare con lo sguardo. Sembrano piccolezze ma non lo sono. Non è che tutti conoscono la tua religione, ma c'è un clima di tolleranza e di rispetto dell'altro, cosa che in Italia non c'è. 


D: Come si fa a normalizzare tutto questo in Italia? 

Aicha: Per le nuove generazioni qualcosa sta cambiando, grazie a queste pagine e a internet. Il problema è che l'Italia non è un paese giovane.. (ride). Sarebbe auspicabile che i media tradizionali fossero più inclusivi. Ci vorrebbe un'apertura da parte dei piani alti, della generazione più anziana, che non penso succederà. 

Kawtar: Le generazioni italiane con background migratorio sono ancora poche rispetto ad altri paesi, poi la nostra società italiana è vecchia. Il cambiamento deve avvenire anche dalle Istituzioni. Non penso che noi porteremo il cambiamento ma la nostra generazione può e deve lavorare per entrare nelle posizioni alte per cambiare la mentalità. Ancora oggi quando lavoro in ospedale, i pazienti mi chiedono "ma lei di dov'è"? E io rispondo "sono veneta", e vedi che fanno fatica. È la prima volta che vedono una dottoressa con il velo e sono curiosi. Oltre a fare il mio mestiere, devo spiegare loro le mie origini, a me va bene ma insomma questo dimostra che c'è ancora tanto lavoro da fare. Qualcosa si sta smuovendo ma siamo solo all'inizio. 


D: Ci siamo conosciute al Blackness Fest. Cosa pensate di questo festival e perché è importante questo spazio sicuro? 

Aicha: Uno spazio ideato per creare momenti di riflessione antirazzista è ovviamente sempre ben voluto ed è bello vedere che ci si sta muovendo in questa direzione. È stato un ambiente di enormi scambi e condivisioni, molto sensibile non solo dal punto di vista del pubblico ma anche del catering. In fila ho chiesto se la carne fosse halal, e mi é stato risposto "certo che è halal perché questo è uno spazio inclusivo". Non ho mai partecipato a un evento laico dove la carne fosse halal. Quindi sì, è uno spazio sicuro, un bel momento di scambio e di conoscenza con tante persone differenti da tutta Italia. È quella parte di Italia che non ti fanno mai vedere. 


D: Sogni e progetti nel cassetto nel futuro? 

Aicha: Abbiamo in programma per il 12 novembre un evento con Francesca Bocca a tema salute mentale: sia dal punto di vista psicologico, sia dal punto di vista religioso. Abbiamo sicuramente il privilegio di poter parlare di questi temi rispetto alla generazione precedente che giunta in Italia aveva altre priorità, ma credo sia davvero importante affrontare certi temi, sdoganarli e portarli al centro del dibattito nella comunità. L'intervento sará poi disponibile come episodio podcast.

Kawtar: L'altro grande sogno è realizzare un festival musulmano in Italia, quindi mostrare la comunità musulmana dal vivo. Non ci sono solo arabi quando parliamo di Islam in Italia, non c'è solo il teologico nell'Islam ma c'è tanto tanto di più.. a partire dal cibo! Ci piacerebbe organizzare un Muslim Fest, come quello canadese, aperto a tutti, non solo ai musulmani ma che possa servire a imparare qualcosa di nuovo. 

 

 

 


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