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Sonia garcia
Febbraio 28, 2022
BLACKNESS

Attraverso la musica mi sono riappropriata della mia identità

La voce di Sonia Garcia, intervistata da Sara Manisera, FADA Collective

Blackn[è]ss fest è il primo festival in Italia che propone una rielaborazione dell'universo afrodiscendente. Eventi e tavole rotonde per riflettere sul concetto di nerezza, secondo un percorso di decolonizzazione del linguaggio e per discutere di temi come gli effetti sulla salute mentale della profilazione razziale, la discriminazione, il razzismo ma anche la musica, il cinema, i media e la rappresentazione. 

Voice Over Foundation ha scelto di accompagnare il festival in questo percorso e di raccontarlo per tutto l'anno, attraverso le voci di chi ne è protagonista.

Intervista a Sonia M. Garcia, giornalista, dj, founder della piattaforma Sayri. 


D: Come ti chiami, ci puoi dire chi sei e cosa fai? 

R: Sono Sonia Garcia, ho trent'anni e vivo a Milano da dieci. Sono nata a Roma e cresciuta ad Arezzo da famiglia peruviana. Ho studiato architettura e urbanistica al Politecnico e, dal 2013, lavoro nella comunicazione e giornalismo, dove mi sono occupata principalmente di musica. Grazie al mio lavoro ho avuto il privilegio di conoscere realtà musicali che attraverso la sperimentazione elettronica e la politicizzazione del dancefloor celebravano esperienze di marginalità come quella della queerness e della discendenza da territori colonizzati, come quello di Abya Yala, cioè l'America Latina. Da quel momento la musica mi ha fatto sentire più integra ed è stata cruciale per capire chi fossi e ricongiungermi con la mia identità. Ho iniziato a suonare, mixare, fare Dj Set sviluppando anche questo mezzo di espressione oltre alla scrittura. Prima del Covid-19 ho lanciato il progetto Sayri, una piattaforma di sperimentazione di eventi in cui si pone al centro l'arte e la sperimentazione di donne e dissidenze affettive o di genere della diaspora Abya Yala. 


D: Quale è stato l'evento che ti ha portata a riscoprire la tua identità? E cosa ha significato farlo attraverso la musica? 

R: La mia infanzia e adolescenza ad Arezzo sono state serene, ma connotate da una negazione della mia identità peruviana, indigeno-discendente. Accettavo solo quella italiana e negavo di essere figlia di genitori immigrati, di essere non bianca. Una diversità che era visibile ma che io mi ostinavo a non accettare. E questa negazione era il prodotto di un razzismo e di un odio che avevo interiorizzato e che mi portava a odiare una parte di me. Quando sono arrivata a Milano ho iniziato a conoscere persone appartenenti a una comunità con storie simili alla mia, e ad approfondire scene musicali, artisti e artiste che sperimentavano con sonorità a me familiari, riconducibili alla musica tradizionale folklorica andina con cui sono cresciuta. Da piccola avevo passato anni a odiarla; in quel momento mi stava aiutando a riconnettermi con chi ero, ed ero sempre stata. Grazie a questi artisti e artiste ho potuto mettere insieme pezzi della mia storia. La musica è stata ed è cruciale. Una delle artiste più importanti per me di questo percorso è Elysia Crampton. 


D: In un'intervista tu parli di approccio decoloniale e di musica come strumento di rivendicazione. Quanto è presente questa visione nel tuo percorso di oggi?

R: Non mi sento di definire il mio progetto decoloniale ma sicuramente l'approccio è sicuramente anti-egemonico perché mette in discussione certe categorie e strutture che sono state egemonizzate e che detenevano potere. Le stesse categorie di identità, razza, genere sono delle trappole in sé limitanti e dovrebbero essere smantellate. Diciamo che l'intento di Sayri è volto a una nuova narrazione: cos'è una clubnight latina? Può essere narrata senza passare dagli stereotipi e le feticizzazioni del reggaeton o della cumbia che si sono affermati negli ultimi anni? L'intento di Sayri è amplificare altre realtà che nascono e crescono in Abya Yala, radicate nella sua storia di resistenza queer, indigena e afro-discendente. 


D: Come hai vissuto il festival Blacknèss? Cosa significa per te e come pensi si debba evolvere? 

R: Per me Blacknèss è stato un momento importante di condivisione e di ispirazione. È stato un coronamento di tanti momenti di condivisione e di crescita che molti di noi stavamo già sviluppando. È stato un festival molto familiare ma altrettanto professionale, pensato e realizzato da persone della comunità razzializzata con un'attenzione enorme alle differenze, le sfaccettature e le diversità interne alla comunità o alle comunità. Io ho partecipato con un dj set assieme alla mia socia di Sayri, Juana Bel, e come speaker del panel sulla rappresentazione nei media. In generale è stato un momento di grande ispirazione a livello umano e lavorativo. Penso che sia importante mantenere Blackness come uno spazio il più possibile esente da dinamiche violente ma al tempo stesso penso che l'apertura sia fondamentale. La maturità sta nell'ammettere che non essendo un blocco monolitico si possono sviluppare delle divergenze. Sono normali e questo vale per Blackness o per qualsiasi altro gruppo o movimento fatto da una pluralità di voci e esperienze.


D: Progetti per il futuro? 

R: Finire il master di giornalismo preservando il più possibile la salute mentale, trovarmi un lavoro meno precario, tornare a organizzare feste, suonare e continuare la collaborazione con Blacknèss. E poi, soprattutto, visitare la mia famiglia in Perù a Cusco e Apurimac, le regioni andine da cui proveniamo.


Photo credits: Michael Yohanes



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