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Denise Sala
Dicembre 07, 2023
BLACKNESS

Ambientalismo intersezionale significa unire le lotte per il clima e per la giustizia sociale

La voce di Denise Sala, intervistata da Chiara Pedrocchi

Blackn[è]ss fest è il primo festival in Italia che propone una rielaborazione dell'universo afrodiscendente. Eventi e tavole rotonde per riflettere sul concetto di nerezza, secondo un percorso di decolonizzazione del linguaggio e per discutere di temi come gli effetti sulla salute mentale della profilazione razziale, la discriminazione, il razzismo ma anche la musica, il cinema, i media e la rappresentazione. 

Voice Over Foundation ha scelto di accompagnare il festival in questo percorso e di raccontarlo per tutto l'anno, attraverso le voci di chi ne è protagonista.

Intervista a Denise Sala, studentessa universitaria e attivista di Fridays for Future Milano e protagonista del festival Blackn[è]ss.


D: Come ti chiami? Ci puoi dire chi sei e cosa fai nella vita?

R: Mi chiamo Denise Sala, ho 21 anni e sono una studentessa universitaria. Sono italiana da parte di papà, zambiana da parte di mamma. Nella vita mi occupo di attivismo, soprattutto climatico. Faccio parte di Fridays For Future-Milano. Ho vissuto anche a Stoccolma, dove ho fatto parte di Fridays For Future-Svezia. 


D: Al Blackn[è]ss fest hai partecipato a un tavolo dal titolo “Lo stato attuale del wokenismo”: che cos’è e a che punto siamo?

R: Il termine wokenismo deriva da woke, che significa letteralmente “risvegliato”. È stato utilizzato negli Stati Uniti tra persone afroamericane per descrivere il processo di presa di consapevolezza rispetto alle ingiustizie sociali subite dalle minoranze, in particolare quelle nere. Essere woke significa riconoscere la discriminazione che vivono quotidianamente le persone razzializzate. 


D: Come è stato il tuo percorso di wokenismo?

R: È iniziato quando ho iniziato a frequentare spazi intersezionali, come Fridays For Future. Mia sorella mi ha sempre detto che io sono una nera-bianca. In realtà non ha tutti i torti. Sono stata socializzata come bianca, mi sono sempre percepita bianca e poi ho capito che, per quanto io mi senta bianca, c’è una grandissima parte che non ha niente a che fare con tutto questo. Anzi. Dietro c’è una storia enorme e importante da capire, analizzare e sicuramente rappresentare. Il wokenismo per me è stato un percorso di presa di consapevolezza dell’essere nera. 

Sicuramente avere un genitore italiano e bianco mi ha dato più privilegi rispetto ad altre persone: a volte sentivo di non avere il diritto di parlare di razzismo, perché non avevo subito gli stessi episodi degli altri. Ho capito, però, che ci sono diversi livelli di discriminazione, e tutti sono rilevanti. 


D: Cosa ti ha spinta a iniziare questo percorso?

R: Quando sono tornata dalla Svezia mi sono resa conto che lì non subivo le stesse discriminazioni vissute in Italia. Ho iniziato a notare gli sguardi delle signore sul pullman, persone che non vogliono sedersi vicino a me, e persino atteggiamenti discriminatori da parte dei più giovani. Avendo vissuto in un paese meno razzista rispetto all’Italia mi sono accorta che qui c’è qualcosa di profondamente sbagliato. Nel frattempo ho iniziato a seguire pagine che parlano di razzismo, di decostruzione, e più sentivo queste testimonianze e più pensavo ‘anche io mi sento in questo modo, anche io devo mettere in discussione delle cose’.


D: Come hai iniziato a fare attivismo?

R: L’attivismo è stata una conseguenza del mio essere sempre stata attenta alle tematiche sociali e climatiche, e il voler fare la mia parte. Individuo due fasi del mio attivismo. La prima è quando è nato il movimento Fridays For Future. Vivevo fuori da Milano, nelle periferie, e facevo piccole azioni che non incidevano sulla matrice sistemica del problema. Era tutto legato alla sostenibilità, che è una parte importante del problema ma non la principale. In Svezia ho iniziato a fare attivismo avvicinandomi a tematiche più ampie, analizzando il problema sistemico della crisi climatica e tutte le sue conseguenze sociali. Per me fare attivismo significa riconoscere di avere dei privilegi, e sentire il bisogno e l’obbligo di schierarmi dalla parte di chi non li ha. 

 

D: Quanto è importante che le lotte siano intersezionali? 

R: I movimenti per il clima che si definiscono intersezionali non parlano più di lotta al cambiamento climatico ma di giustizia climatica, e la giustizia climatica passa dalla giustizia sociale. Lottare per la crisi climatica non significa semplicemente lottare per la salvaguardia del pianeta ma anche per le persone che lo abitano. Questo sistema economico è causa della crisi climatica in corso ed è responsabile anche della morte di migliaia di persone razzializzate, abitanti del Sud globale. Ma anche quando si parla di Nord globale, le prime a pagare le conseguenze della crisi climatica sono loro e le persone a basso reddito. Spesso, infatti, sono loro a vivere nei quartieri più inquinati, esposti all’acqua contaminata dalle industrie.

Questa società è una piramide verticista dove, alla base, ci sono le persone BIPOC [Black, Indigenous and People Of Color, ndr]. Da quella parte ci sono anche io. Capirlo è stato forte e importante; da un lato avevo il privilegio di vivere nel Nord globale, dall’altro le persone bianche che lottavano con me erano sempre messe su un livello diverso. È fondamentale amplificare le voci di chi vive queste ingiustizie. Quando c’è l’opportunità di rilasciare dichiarazioni è importante dare spazio a chi queste cose le vive in prima persona. Ambientalismo intersezionale significa rendersi conto che le ingiustizie sociali sono interconnesse con le ingiustizie climatiche.

Le persone che fanno attivismo climatico sono principalmente bianche: si tratta di riconoscere il privilegio e decidere di contrastarlo. Il sistema in cui viviamo fornisce una serie di privilegi, come l’istruzione, vivere in un territorio poco inquinato. Ma è un sistema che alimenta tutto il resto delle ingiustizie dall’altra parte del mondo. E non è questione di fare pessimismo o di sentirsi in colpa, ma di rimboccarsi le maniche e schierarsi dalla parte di chi è oppresso.

 

D: Cosa pensi di spazi come il Blackn[è]ss e perché sono importanti in Italia? 

R: Quest’anno ho partecipato a Blackn[è]ss per la prima volta. Avevo seguito l’ultima edizione dai social, pensando ‘wow, mi piacerebbe partecipare’, perché quello che vedevo era un forte senso di comunanza e rappresentanza. È bello vedere nello stesso spazio così tante persone nere condividere le proprie storie senza sentirsi in dovere di giustificarsi e senza timore di andare incontro a episodi di white fragility, che è l’atteggiamento di difensiva adottato dalle persone bianche per respingere l’accusa di razzismo. Lì non ho sentito il bisogno di dire determinate cose, perché sapevo che le persone che c’erano condividono già la mia stessa rabbia e frustrazione. L’obiettivo era concentrarsi su questi due sentimenti, ma anche sulla gioia e sulla celebrazione della nerezza. E poi è importante rappresentare storie e corpi anche attraverso la danza e la musica, che sono spazi tendenzialmente bianchi, specialmente a livello globale. Spero che ci siano ulteriori edizioni.

 

D: Quali sono i tuoi progetti futuri?

R: Vorrei rendere la mia lotta sempre più intersezionale, avvicinandomi anche ad altri movimenti. Vorrei capire meglio come prendermi cura di me stessa e delle altre persone della mia comunità quando si parla per esempio di eco-ansia. E poi vorrei cercare ispirazione, perché sento che tutti i metodi utilizzati fino ad oggi hanno sempre meno impatto su chi dovrebbe svegliarsi davvero. 

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